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Foto fondale marinoIl mare è un polmone blu, ed è fondamentale che sia in salute.

Dopo quasi quindici anni di negoziati, le Nazioni Unite sabato hanno finalmente raggiunto l’accordo per proteggere gli oceani, in particolare a difesa dell’Alto Mare, un tesoro inestimabile di biodiversità che si trova al di là della Zona Economica Esclusiva (ZEE) nazionale.

La nave ha raggiunto la riva”: con questa frase Rena Lee, Ambassador for Oceans and Law of the Sea Issues e presidente della conferenza presso la sede delle Nazioni Unite a New York, ha annunciato il Trattato Globale sugli Oceani, che consentirà la protezione del 30% degli oceani entro il 2030. Ma i Governi devono ratificarlo il più presto possibile, Italia compresa.

Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili a causa degli effetti del cl cambiamento climatico, della pesca eccessiva, del yraffico navale e dell'inquinamento:

  • nel 2022, per il settimo anno consecutivo, le temperature medie degli oceani sono aumentate e hanno raggiunto i valori massimi dagli anni Cinquanta, quando si cominciarono a registrare con sistematicità. Lo dice il nuovo studio di un gruppo di ricerca internazionale composto da 16 istituzioni scientifiche del mondo che da anni tiene sotto controllo i dati complessivi sugli oceani, pubblicato sulla rivista Advances in Atmospheric Sciences.
  • stando ai dati di Global Fishing Watch, una ong che documenta quali aree marine sono frequentate dai pescherecci e con quale frequenza, la riduzione della superficie di mare ghiacciata nello stretto di Bering dovuta all’innalzamento delle temperature ha portato a un’estensione dei territori di pesca. Rispetto al 2013, nel 2020 i pescherecci hanno potuto lavorare in una porzione di oceano molto più ampia. Sono sempre di più le navi che praticano la pesca a strascico, o quella con le reti da traino, riducendo il numero dei pesci e dei granchi chevivono sui fondali;
  • in meno di un secolo dalla sua diffusione, la plastica è diventata uno dei materiali più diffusi e utilizzati al mondo tanto da avere colonizzato praticamente qualsiasi ecosistema, diventando un problema sempre più grande e urgente da affrontare. Si stima che la quantità di plastica non riciclata prodotta tra il 1950 e il 2017 equivalga a oltre 9 miliardi di tonnellate: circa la metà è stata prodotta dall’inizio di questo secolo e meno di un terzo è ancora oggi in uso. Ciò che è diventato rifiuto è finito per l’80 per cento nelle discariche o disperso nell’ambiente, andando a inquinare il suolo, i corsi d’acqua e gli oceani. Agli attuali ritmi, la quantità di rifiuti di plastica potrebbe triplicare entro il 2060, mentre le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’intero ciclo di vita della plastica potrebbero raddoppiare nei prossimi 40 anni, secondo le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD). Non esiste inoltre un solo tipo di plastica: dagli anni Cinquanta sono state sviluppate decine di molecole di vario tipo, con caratteristiche diverse e con uno specifico impatto sull’ambiente. E questo è solo uno degli inquinanti più conosciuti prodotti dagli esseri umani (uno dei rapporti più recenti e rilevanti sul tema è stato prodotto dalle Accademie nazionali delle scienze, dell’ingegneria e della medicina degli Stati Uniti, NASEM).
Foto shifaaz shamoon okVXy9tG3KY unsplashIl gruppo di ricerca, di cui fanno parte anche due enti italiani, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), ha rilevato particolari aumenti delle temperature nei primi 2.000 metri di profondità di quattro grandi bacini in particolare: le parti settentrionali dell’oceano Pacifico e dell’oceano Atlantico, il mar Mediterraneo e gli oceani meridionali, quelli più vicini all’Antartide. In queste zone sono state registrate le temperature più alte dagli anni Cinquanta. Il recente studio ha dimostrato che il crescente aumento delle emissioni di gas serra potrebbe provocare un’estinzione di massa della vita nei mari pari a quella che segnò l’ultimo giorno dei dinosauri sulla Terra, con l’unica differenza che questa non fu causata dall’uomo.

Il team di ricercatori che è arrivato a queste tremende conclusioni ha infatti realizzato un modello di cambiamento climatico incentrato sugli Oceani tale da generare un’estinzione di massa della vita marina con effetti simili a quelli che nel Paleozoico, e più precisamente nel periodo del Permiano, quando fu cancellata per sempre l’81% delle creature marine. Il possibile scenario presentato è purtroppo un’ipotesi in realtà molto concreta che avverrebbe per via del riscaldamento globale e della conseguente perdita d’ossigeno negli Oceani che porterebbe al declino di intere popolazioni di specie marine differenti, di cui il 45% già classificate nella lista IUCN come a rischio d’estinzione. 

A questo, comunque provocato dalle attività umane, si aggiunge la gestione del tutto insostenibile delle risorse marine, che nell’Alto Mare nessun Governo prima d’ora si era mai assunto la responsabilità di proteggere. 

Per la Redazione - Serena Moriondo