Una campagna vaccinale seria e veloce che porti il paese fuori dall’emergenza e che salvi la vita degli anziani, che anche in queste ore continuano a morire nelle Rsa o in un letto d’ospedale. A chiederlo lo Spi, il sindacato dei pensionati della CGIL insieme a Fnp Cisl, Uilp Uil. Una richiesta più che fondata.
Approfondiamo il tema.
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha confermato che i recenti progressi ottenuti nel campo della salute per la popolazione a livello mondiale e i progressi verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono stati rallentati dalla pandemia. Nonostante gli avanzamenti compiuti, il Rapporto World Health Statistics 2020 aveva lanciato un avvertimento, ricordando ai Paesi quanto bastasse poco per invertire questa tendenza complessivamente positiva. Ed è ciò che è successo con la diffusione della pandemia che ha messo in seria difficoltà tutti i sistemi sanitari, colpendo soprattutto le persone anziane. Un dato, quest’ultimo, aggravato dalle responsabilità, in fase di accertamento da parte di varie Procure, per le morti evitabili avvenute in molte RSA.
In base alle informazioni comunicate al sistema di sorveglianza nazionale dall’inizio dell’epidemia al 13 gennaio 2021 si sono verificati 2.296.451 casi di COVID-19 confermati con test molecolare, di questi, 78.597 (3,42%) sono deceduti alla stessa data. L’età mediana dei casi deceduti è risultata pari a 82 anni con lievi differenze tra Nord (83 anni), Centro (82 anni) e Sud Italia (79 anni).
A livello nazionale, circa la metà dei decessi è avvenuta durante la prima ondata dell’epidemia (febbraio – maggio 2020; 45,1%), mentre la quota di decessi registrati durante i mesi estivi appare molto ridotta (giugno – settembre 2020; 1,51%) per poi risalire in riferimento alla seconda ondata dell’epidemia (ottobre 2020 – 13 gennaio 2021; 53,4%).
La pandemia da COVID-19 ha rappresentato un banco di prova importante anche per la medicina di genere. È di dominio comune, infatti, che l’infezione da SARS-CoV-2 stia determinando effetti diversi negli uomini e nelle donne. Le informazioni a disposizione sull’infezione sono tuttora in evoluzione e i dati disaggregati per sesso, ad esempio, sono ancora esigui, tuttavia, sappiamo che nel panorama italiano e europeo i pazienti deceduti sono principalmente anziani, uomini e con patologie pregresse e che i maggiori casi di infezione si riscontrano nel personale sanitario, il più delle volte donne. Le casistiche fin qui analizzate in tutti quei Paesi che hanno riportato dati disaggregati per sesso, inclusa l’Italia, indicano che è il genere a fare la differenza, soprattutto nelle fasce di età inferiori agli 80 anni, in modo del tutto simile alle infezioni da altri coronavirus recenti (SARS, MERS). L’attitudine alla prevenzione, intesa anche come attenzione al proprio stato di salute, il monitoraggio periodico dei fattori di rischio e l’aderenza agli eventuali trattamenti farmacologici, oltre che lo stato occupazionale e il ruolo sociale, rappresentano elementi di differenza in grado di condizionare la patologia COVID-19 in relazione al genere a molteplici livelli.
Tale approccio costituisce un presupposto essenziale per comprendere non soltanto le conseguenze a breve termine, ma anche quelle a lungo termine sulla salute futura di individui di ogni sesso ed età. Secondo lo studio “Medicina di genere e Covid-19” pubblicato a luglio 2020 dal Ministero della Salute, infatti, “nonostante l’infezione si sia dapprima maggiormente diffusa in aree geografiche più ricche ed industrializzate, quelle del Nord, lo scenario post-pandemia costringerà probabilmente la fascia più vulnerabile della popolazione (e ovviamente, le donne) ad affrontare i postumi più gravi e protratti nel tempo.”
Secondo il Rapporto Covid-19 n.1/2021 dell’Istituto Superiore di Sanità l'epidemia ha colpito prevalentemente l’area settentrionale del Paese durante la prima ondata, per poi estendersi più diffusamente sull’intero territorio nazionale nei mesi estivi e durante la seconda ondata. Rispetto ai casi più recenti, i casi diagnosticati nella prima fase dell’epidemia hanno probabilmente risentito di un sistema sanitario meno preparato ad affrontare l’emergenza in termini di accesso alla diagnosi, disponibilità di servizi ospedalieri e conoscenze relative ai possibili trattamenti terapeutici.
L’analisi dei Case Fatality Rate relativi (tasso di letalità, ossia la proporzione di decessi che si verificano in una popolazione infetta) hanno mostrato che nell’intero periodo preso in esame (febbraio-ottobre 2020), assumendo l’intero Paese come riferimento, il CFR è stato più elevato in Abruzzo (+36%), Puglia (+35%), Sicilia (+31%), Campania (+27%), Lazio (+26%) e Lombardia (+16%), mentre i valori più bassi si sono registrati nella PA di Trento (-31%) e in Umbria (-26%), Friuli Venezia Giulia (-18%), Basilicata (-18%), Toscana (-15%) e PA di Bolzano (-15%). È opportuno notare che parte delle differenze tra i CFR potrebbero essere spiegate da una diversa sensibilità della definizione di decesso COVID-19 applicata a livello regionale, e che alcune delle Regioni che hanno mostrato un tasso di letalità ridotto rispetto alla media nazionale sono anche quelle che, da un confronto con i dati riportati dal Ministero della Salute, hanno registrato un livello di sottonotifica dei decessi relativamente elevato.
Un confronto tra l’eccesso di mortalità osservato in Italia con quello complessivo registrato in Europa ha, infine, evidenziato un eccesso aumentato in Italia durante la prima ondata dell’epidemia ma livelli inferiori nelle fasi successive. Il maggiore eccesso osservato in Italia durante la prima fase epidemica è stato verosimilmente dovuto alla diffusione anticipata dell’infezione rispetto alla maggior parte degli altri Paesi europei.
In un contesto così preoccupante è giusto rivendicare, come stanno facendo i sindacati dei pensionati, un piano vaccinale serio e tempestivo, oltre ad una legge sulla non autosufficienza per prendersi in carico la gestione della vecchiaia e delle sue fragilità, come dovrebbe fare ogni Paese civile. A maggior ragione ora che la pandemia ha evidenziato che il Covid-19 potrebbe diventare endemico (cioè ripresentarsi ad ogni stagione, come l’influenza). Questo fatto ci conferma la necessità di proteggere le persone dalle emergenze sanitarie promuovendo la copertura sanitaria universale. Per farlo, però, non è sufficiente garantire un’adeguata assistenza alle persone anziane e neppure assicurare/potenziare la presenza dei servizi territoriali e a domicilio, aspetti comunque indispensabili e fortemente carenti nel nostro Paese. Oltre ad avere una maggiore considerazione della vita umana, largamente intesa, nell’arco di tutta la vita è necessario combattere la povertà, le disuguaglianze, le discriminazioni di genere. Perché queste sono le vere determinanti nei fattori di rischio, oltre, ovviamente, lo stato di salute pregresso.
A indicarne l'importanza è il GOAL 3 - SALUTE E BENESSERE "Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età". Il Rapporto ASviS 2020 sottolinea le interconnessioni tra salute umana e ambientale e ribadisce l’urgenza dell’attuazione del principio della “Salute in tutte le politiche” e del superamento delle disuguaglianze regionali. Link: https://youtu.be/yZOwyi9Ekxs
Per questo le nostre comunità non dovranno e non potranno limitarsi a restituire maggiore dignità e considerazione dei bisogni primari delle persone, ma dovranno tener conto anche di quelli che la filosofa Agnes Heller definiva “bisogni radicali”, cioè una vita piena di senso, un lavoro gratificante, lo studio, l’esigenza di tempo libero, quei bisogni che, proprio perché mirano a una liberazione radicale, non possono essere soddisfatti in una società ingiusta.
Per la Redazione - Serena Moriondo