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IMMAGINE climate justice FBOG"Se c’è una cosa - ha dichiarato la giovane attivista pachistana Ayisha Siddiqa in occasione di un dibattito pubblico - che voglio che voi nella sala trasmettiate al resto del mondo è che non si può negoziare con la natura. Verrà un tempo in cui nessuna quantità di dollari vi permetterà di rimediare a ciò che è perso e a ciò che è rotto”.

I cambiamenti climatici costituiscono, infatti,  la peggiore minaccia non solo per gli equilibri ecosistemici, ma anche per il godimento di tutti i diritti umani fondamentali riconosciuti e tutelati dall’ordinamento internazionale: diritto alla salute, all’alimentazione e all’acqua, all’alloggio e all’autodeterminazione, diritti culturali, all'istruzione fino al diritto alla vita. Se è vero che tali diritti sono a rischio a tutte le latitudini e longitudini, altrettanto vero è che lo sono a geometrie variabili. Il rischio è infatti più grave e frequente proprio nelle regioni del pianeta che, in misura nettamente inferiore, hanno contribuito a questo stato di cose.

"Dall’analisi incrociata di queste evidenze - scrive Marica Di Pierri, tra le coordinatrici della campagna nazionale Giudizio Universale entro cui è stata promossa la prima climate litigation italiana - è sorta, a partire dai primi anni 2000, la rivendicazione – poi divenuta nozione assunta anche in ambito accademico – di giustizia climatica (Fonte: "Giustizia climatica dentro e fuori i tribunali. Il contenzioso legale come nuova frontiera della battaglia per il clima"  2023, per Via Borgogna3 il magazine della Casa della Cultura)

I cambiamenti climatici non possono essere analizzati e trattati come un problema soltanto ambientale, essendo anche e soprattutto una questione sociale, politica ed etica. Su questa prospettiva sono nati "i movimenti sociali – in particolare indigeni e rurali di America Latina, Asia e Africa – che, rivendicando giustizia climatica, chiedono il riconoscimento delle responsabilità storiche dei paesi industrializzati, maggiori misure di protezione dagli impatti climatici per le popolazioni e le regioni più vulnerabili e l’applicazione del principio di equità (relativa non solo alle responsabilità ma anche alle capacità finanziarie e tecnologiche) nella distribuzione degli sforzi necessari al varo di politiche di mitigazione e adattamento."

Nel spiegare che  il concetto di giustizia climatica deve essere visto in base a due dimensioni, una spaziale e una temporale, "entrambe mirate a misurare le disuguaglianze di responsabilità e di vulnerabilità, inversamente proporzionali tra loro", Marica DI Pierri ci spiega che la prima, è da intendersi come "giustizia intra-generazionale," dove le disuguaglianze vengono misurate "a livello di distribuzione geografica, ovvero tra Stati, comunità e individui. La seconda, definita giustizia inter-generazionale, le misura invece nel tempo, ovvero tra le generazioni passate e presenti da un lato e quelle giovani e future dall’altro, chiamate a pagare un prezzo altissimo indipendentemente dal contributo emissivo che forniranno."  Il tema del diritto al futuro è particolarmente rilevante nelle rivendicazioni dei movimenti climatici giovanili, che hanno affollato le piazze di migliaia di città negli ultimi anni, a cui appartiene anche  Ayisha Siddiqa che ha contribuito a fondare “Free Fossil University, una scuola di pensiero e di azione nata per "allontanare chi inquina dai governi, dalle terre indigene, dal nostro futuro, dalle nostre vite".

Di fronte agli scarsi risultati di persuasione ottenuti tramite gli strumenti di pressione sociale come contestazioni, campagne o azioni di visibilità, che non sempre hanno trovato solidarietà da una parte dell'opinione pubblica, "la battaglia per l’aumento dei target di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra ha iniziato via via a entrare anche nei tribunali, in particolare nell’ultimo decennio, e con frequenza maggiore dopo la sigla dell’Accordo di Parigi nel 2015. Secondo il Global Climate Litigation Report delle Nazioni Unite pubblicato a luglio 2020, il numero di casi risultava quasi raddoppiato in tre anni, con 1.550 contenziosi climatici in 38 paesi, contro gli 884 censiti dalla stessa UNEP nel 2017. Nel maggio 2022 si registravano oltre 2.000 casi in 45 paesi. Tra i più significativi nel contesto europeo, va citato senza dubbio il caso olandese Urgenda, nell’ambito del quale, nel 2019, la Corte Suprema dei Paesi Bassi ha condannato in via definitiva lo Stato a limitare le emissioni di almeno il 25% (rispetto al 1990) entro il 2020. Il caso Urgenda ha fatto da apripista nel nostro continente: a esso sono seguite importanti vittorie registrate in Francia, Germania, Irlanda e Belgio. Uno dei trend più interessanti del fenomeno vede una progressiva estensione dello strumento legale ai paesi del Sud globale, con rilevanti vittorie in paesi come il Pakistan o la Colombia." 

L’insufficienza delle politiche climatiche in Paesi che presentano, come l'Italia, "una straordinaria vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici " -  senza che siano messe in atto misure adeguate alla gravità della situazione - "Sono le ragioni che hanno portato nel 2019 all’avvio della campagna “Giudizio Universale”, lanciata dall’associazione A Sud e a cui aderiscono oltre 100 attori della società civile italiana" e che ha portato, nel 2021,  "la prima azione legale climatica in Italia di fronte al tribunale civile di Roma" a cui hanno aderito oltre 203 ricorrenti, tra associazioni e cittadini. 

La giustizia climatica si persegue anche costruendo, giorno per giorno, una maggiore sensibilità sociale in grado di creare e replicare un pensiero criticoassumendosi la responsabilità di contribuire al processo di cambiamento in modo equo, rispettoso, rinnovato, inclusivo.

Immagine 2030 goal 13"La miopia e l’opacità della classe dirigente", quella che Paolo Perulli, professore di Sociologia economica presso l'Università del Piemonte Orientale - nel suo libro "Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo" (il Mulino, 2021) - descrive come "un’élite del potere, lo screditamento e svuotamento della classe creativa (saperi senza potere), e l’emersione di una vasta neoplebe senza risorse materiali né riferimenti valoriali (una massa senza sapere) – sono l'esito delle distorsioni innescate dal trentennio di globalizzazione." 

Il 2050, spiega l'autore, è l’orizzonte per molte agenzie internazionali entro il quale si “verificherà” il futuro del mondo. Se il cambiamento climatico non sarà stato interrotto almeno rispettando gli accordi di Parigi, ma con l’obiettivo di contenere l’aumento del riscaldamento a +1,5 gradi, l’intero pianeta sarà investito da sconvolgimenti irreversibili. In realtà già il 2030, fissato dall’ONU per il raggiungimento dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile, è un turning point senza ritorno.

Ma, a differenza di quanto ci saremmo aspettati, è in atto "un enorme processo di greenwashing (..), ulteriore dimostrazione della capacità del capitalismo e della globalizzazione di fagocitare tutto. Le imprese, nella loro comunicazione, evocano immaginari legati alla natura, propongono la cosiddetta “narrativa della Green Innovation”, e pur essendo parte del problema si offrono come parte della soluzione." Ci sono però degli spiragli, delle “linee di frattura”, faglie dove la società capitalistica entra in contraddizione con se stessa, ammettendo di aver creato meccanismi autodistruttivi; su quelle faglie occorre fare leva; la prima è tra “economia ed ecologia”, la seconda tra “flussi e insediamenti, migrazioni e habitat”, la terza tra “divisione del lavoro e bisogni sociali”, la quarta “competizione e sopravvivenza” e la quinta tra “ irresponsabilità economica e responsabilità ecumenica”.

L’ingiustizia ambientale globale avanza, essa va interrotta prima che sia troppo tardi,  privilegiando “il risultato del benessere collettivo sulla religione del profitto individuale”. Ed è il "lavoro intellettuale sociale" che è capace di sviluppare "un nuovo pensiero critico per dare una direzione a un pianeta che ha perso la direzione".

Per la Redazione - Serena Moriondo