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immagine benefits word abstract wood type vintage letterpress 106353262In merito alla Legge di Bilancio 2024 si è letto in queste settimane su alcuni quotidiani che, dopo aver previsto l'aumento della soglia esentasse dei beni, servizi o erogazioni in denaro previsti con il welfare aziendale (da 258,23 a 2.000 euro per chi ha figli a carico e a 1.000 euro per chi non li ha), vi sarebbe ora un emendamento che permetterebbe di utilizzare i fringe benefit per pagare mutui e affitti, con l'intento di attenuare gli effetti derivanti dall'aumento dei tassi e dell'inflazione. Così facendo - spiegano alcuni autorevoli opinionisti - si rischia però di snaturare il senso del welfare e non sfruttare le sue opportunità progettuali.

Ma di quali opportunità progettuali si sta parlando? La cosa che colpisce è come non si riesca a comprendere che, aver aperto la via all'introduzione del welfare aziendale a livello contrattuale, prima o poi, avrebbe consentito di trasformare quella strada in una vera e propria autostrada a tre corsie mettendo in bilico la stessa esistenza del welfare state.

Quest'ultimo emendamento infatti, non presenterebbe nulla di nuovo rispetto alla scelta, utilizzata negli scorsi anni, per coprire -  tramite il welfare aziendale - la spesa delle utenze domestiche (elettricità, gas e acqua) per affrontare la crescita dei costi dell’energia.

Che si voglia utilizzare questo strumento per "facilitare" l’utilizzo di servizi di natura sociale, sanitaria e assistenziale o per "migliorare" la flessibilità dell'orario di lavoro e facilitare la conciliazione tra vita lavorativa e familiare, per "promuovere" la formazione continua dei lavoratori e delle lavoratrici, questa - a parere di chi scrive - rimane la strada sbagliata per almeno quattro ragioni:

  1. il welfare aziendale rappresenta una visione competitiva/disuguale delle opportunità: dal 2016 al 2021 il numero dei piani di welfare nelle imprese è cresciuto del 495%, quelli che regolamentavano misure di welfare aziendale erano pari quasi al 60% del totale. Da allora la percentuale è aumentata ma continua a coinvolgere solo coloro che hanno un impiego, con rapporto di lavoro dipendente, di norma, a tempo indeterminato, all’interno di imprese medio-grandi, collocate prevalentemente al nord, e in alcuni settori specifici (terziario, industria e agricoltura). Sono quindi esclusi i disoccupati, i pensionati, i Neet e molti lavoratori e lavoratrici autonomi o che lavorano in aziende che non hanno attivato il piano welfare. La prima considerazione quindi è che Il WA tende ad accentuare le segmentazioni del mercato del lavoro – tra chi sta fuori (pensionati, disoccupati, inattivi, autonomi) e chi sta dentro (dipendenti) e, all’interno di quest’ultimo segmento, tra chi è occupato in aziende che hanno implementato misure di welfare e chi no. Anche la presenza degli enti bilaterali, delle Casse di assistenza sanitaria e dei Fondi sanitari ha il suo peso nel differenziare le prestazioni a seconda del settore di appartenenza. Altre distinzioni riguardano il luogo di residenza della lavoratrice o del lavoratore, la sua posizione contrattuale all’interno del mercato del lavoro (stabile-precaria), il settore merceologico di riferimento della sua azienda. Inoltre, come evidenziato da tutte le ricerche, il fenomeno WA cresce in modo disomogeneo ricalcando quelle differenze economico-sociali e territoriali che da decenni caratterizzano il nostro Paese;
  2. è uno strumento che contribuisce ad alimentare un meccanismo potenzialmente iniquo attraverso l’utilizzo di risorse pubbliche sottratte alla fiscalità generale. Si preferisce, in sostanza, destinare risorse pubbliche alle agevolazioni fiscali, invece che aumentare le risorse ai servizi pubblici come sanità, sociale, istruzione. Tali agevolazioni selettive, infatti, oltre a non espandere le tutele, non permettono ai gruppi più svantaggiati della popolazione di superare le reali difficoltà di accesso alla prevenzione, alle cure e ad servizi essenziali;
  3.  i Sindacati che hanno creduto nel welfare aziendale hanno sempre però sostenuto che occorreva un progetto generale e condiviso, che assumesse la consapevolezza che “la difesa del sistema pubblico si può fare anche orientando la gamba integrativa verso contenuti coerenti con tale obiettivo”. I risultati, però, come era facile aspettarsi ci raccontano una storia differente: tali forme partecipative presentano elementi di ambivalenza, perché risentono del contesto in cui operano e della prevalente iniziativa datoriale che non necessariamente coinvolge le rappresentanze sindacali. In nessun caso, poi,  il welfare definito contrattualmente avrebbe potuto diventare - secondo i sindacati - un’alternativa al salario. Al contrario si è andata a delineare una situazione in cui ad una moderazione salariale si è pensato di far corrispondere un’erogazione, più o meno consistente, di welfare aziendale. Infine, pur essendo sempre stati due capitoli differenti della contrattazione, negli ultimi anni "welfare e flessibilità degli orari" vengono sempre più trattati in maniera congiunta sfuggendo alle logiche contrattuali, e così pure la conciliazione tra lavoro e vita privata. Qualcuno ha auspicato che lo stesso smart working avrebbe potuto essere considerato come una nuova forma di welfare aziendale da affiancare ad altri benefits più tradizionali;
  4. risarcire è ovviamente meglio che non fare nulla di fronte agli svantaggi, ma, sotto un profilo di giustizia sociale, appare discutibile mettere prevenzione e risarcimento sullo stesso piano. In sostanza il WA non può essere considerato uno strumento per progettare e proporre welfare - word abstract in vintage letterpress wood typerisposte a bisogni sociali complessi.

Quello che ci viene proposto è "un welfare universalistico a protezione variabile”, un abile camouflage - svelato ormai da tempo - di un disegno ben più ampio di smantellamento di diritti essenziali previsti dalla nostra Costituzione. In un Paese che si sta impoverendo non abbiamo bisogno di fringe benefits e bonus ma welfare pubblico.

 Per la Redazione - Serena Moriondo