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immagine donne nellartedi Serena Moriondo

Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. nonostante ciò la maggioranza delle fonti la definisce ancora “La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo”. Alle soglie dell’8 marzo 2021, penso che una riflessione sincera sia utile. Penso che ci sia davvero poco da festeggiare, piuttosto è indispensabile tornare a lottare per cambiare, cambiare sul serio per migliorare (non rottamare).

Nell'Italia del Novecento si erano fatti passi avanti importanti ma ora stiamo vivendo una pericolosa inversione di rotta. E di questa inversione di rotta sono in molti ad essere complici, talvolta involontari. Non sono esclusi politici di destra e di sinistra, uomini e donne, persone di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali. La realtà è davanti ai nostri occhi, basta voler guardare. Nel mondo ci sono quasi 8 miliardi di persone, la metà sono donne eppure:

  • il valore del tempo è immediatamente traducibile in termini monetari nel momento in cui viene investito nel mercato del lavoro, ma se è investito nella cura e nella famiglia non ha questo riconoscimento. La motivazione del perché, è meno banale di quanto si possa immaginare e riguarda il modello economico di sviluppo che continuiamo a rincorrere, nonostante le ingiustizie che produce. Il lavoro esercitato in famiglia è un bene sociale essenziale per il funzionamento della nostra società e della nostra economia, tuttavia le cure di questo tipo sono sentite come lavori non qualificati e improduttivi che non meritano neanche di essere riconosciuti. Molti pretendono addirittura che non si tratti di un lavoro, ma di un “obbligo naturale” da assegnare alle donne. Secondo un recente studio di Oxfam, solo i due terzi del lavoro che le donne effettuano è retribuito, mentre più dei tre quarti non lo è. Si tratta di miliardi di ore di lavoro di cui il valore economico è di almeno 10.800 miliardi di dollari all’anno, cioè più di tre volte il valore dell’industria mondiale delle tecnologie digitali. Vi è poi il problema dell’assistenza a familiari con disabilità, malati o anziani bisognosi di cure, reso sempre più rilevante dall’invecchiamento progressivo della popolazione che interessa fortemente anche il nostro Paese. Nella fascia di età tra i 45 e i 64 anni, in sei casi su dieci sono le donne ad avere questo tipo di responsabilità: tra queste una su due è occupata (49,7%). Per aggravare le cose, la maggior parte delle donne che passano buona parte della loro vita a occuparsi degli altri non avranno la pensione o sarà più bassa di quella degli uomini;
  • il divario retributivo continua a rappresentare una delle ingiustizie sociali più diffuse a livello globale.Secondo uno studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) condotto su circa 70 nazioni – che copre quindi l’80 per cento della popolazione mondiale di lavoratori e lavoratrici dipendenti – le donne in media guadagnano il 20% in meno degli uomini per mansioni lavorative uguali o equiparabili. Se poi si va oltre l’aspetto salariale e si esaminano l’accesso all’istruzione, il tipo di occupazione svolta, il numero di ore lavorative il gender gap aumenta considerevolmente. Nell’Unione europea il gender pay gap, prima della pandemia, era del 14,8%, in Italia del 5%, calcolato sulla base della differenza del salario lordo orario tra i lavoratori e le lavoratrici senza però prendere in considerazione tutti gli altri fattori che contribuiscono al divario (come, ad esempio, il tasso di occupazione/disoccupazione femminile, le diverse qualifiche professionali e le specificità del settore pubblico e privato). Inoltre, in 10 anni il numero di persone costrette ad accettare un impiego a orario ridotto è più che raddoppiato (+107,8%), il 69% del totale sono donne;
  • molte indagini, tra cui quella promossa dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, hanno denunciato in questi mesi che durante il lockdown 3 donne su 10 in smart working hanno lavorato di più. Il lavoro agile nato così per la conciliazione, prima della pandemia, è stato invece un ulteriore strumento di discriminazione tra uomini e donne. Queste ultime, infatti, hanno faticato molto a scindere vita personale e lavorativa e, a differenza dei maschi che hanno registrato un consistente aumento del tempo per sé, hanno finito per dedicare il tempo liberato dagli spostamenti da e per l’ufficio, alla casa, al lavoro ai figli che hanno seguito la scuola tramite la DAD;
  • l’Italia è uno dei Paesi più sicuri sotto il punto di vista della criminalità e del numero di omicidi in rapporto alla popolazione, tranne che per le donne. I casi di violenze in famiglia, infatti, sono aumentati in maniera esponenziale durante i mesi della pandemia. L’Istat ha sottolineato come nei primi 6 mesi del 2020 la situazione degli omicidi che hanno visto vittime delle donne si sia ulteriormente aggravata: sono stati il 45% del totale, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto ben il 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile 2020;
  • ci sono alcune piaghe sociali che superano le barriere di genere, altre invece che rimarcano e accentuano inevitabilmente le differenze tra uomo e donna, sottolineando ancora di più il divario di genere che esiste anche quando i punti di partenza sono gli stessi. La povertà è una di queste: 902 milioni di persone vivono in condizioni di povertà estrema, cioè vivono con meno di 1,90 dollari al giorno. L’1% dei miliardari (pressochè tutti uomini) possiede quanto il restante 99% della popolazione mondiale che, nella stragrande maggioranza, è composta da donne. Inoltre, sono donne le principali vittime economiche della pandemia: una donna su due ha visto peggiorare la propria situazione economica e una lavoratrice su due ha paura di perdere il proprio posto di lavoro. Oltre alle privazioni materiali, gli aspetti più allarmanti sono i processi di marginalità ed esclusione che si originano, spesso in maniera irreversibile;
  • sono oltre 821 milioni, vale a dire 1 abitante del pianeta su 9, le persone che, al mondo, soffrono la fame e d'insicurezza alimentare. La maggior parte di queste sono donne, bambine e bambini. Fame non significa solo mancanza di cibo ma anche mancanza di micronutrienti che aumenta il rischio di contrarre malattie, riduce la produttività, impedisce un adeguato sviluppo fisico e mentale;
  • nonostante esistano nel nostro Paese leggi di grande valenza sociale sulla salute riproduttiva ci sono ancora così tante donne costrette a ricorrere agli aborti clandestini a causa del numero spropositato di medici obiettori di coscienza. Parliamo - secondo i dati riferiti al 2018 pubblicati a luglio 2020 dal Ministero della salute - del 69% tra i ginecologi (che arrivano al 92,3% in Molise e dell’87,2% i Sicilia), di quasi il 47% degli anestesisti e del 42% del personale non medico;
  • ci sono opere d’arte, anche celebri, di epoche diverse che devono molto alle figure femminili che vi compaiono. Eppure la maggioranza di quelle donne, ragazze, a volte bambine, non hanno identità, a volte neanche un nome. Figure nascoste dall’ombra ingombrante dell’uomo-artista. Per non parlare delle artiste, musiciste, matematiche, fisiche, filosofe, astronome, sportive, politiche, giornaliste e tante tante altre donne che, con difficoltà, appaiono nei libri, soprattutto quelli scolastici, ma che hanno concorso, non meno degli uomini, alla storia dell’umanità;
  • nel 2008 il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di abolire la pubblicità sessista e degradante per le donne. E non a caso: vi sono varie rappresentazioni delle donne nella pubblicità e sono degradanti. Vi sono le donne “grechine”. Le grechine erano, tanti anni fa, quelle decorazioni con cui alla scuola elementare bambine e bambini venivano invitati a incorniciare e ornare i loro disegni, i loro quaderni. Una grechina è dunque una bellezza decorativa che riempie un vuoto, solitamente di idee. 
Oppure pubblicità voyeuristica, dove l’identità e personalità femminili sfumano e prende corpo una narrazione ”neo cubista” o “interrotta” della donna. In altre parole vengono utilizzate solo alcune parti del corpo femminile (gambe, culo, seno, labbra, ecc.) per pubblicizzare dei prodotti. Poi vi sono le donne “manichini”. Si caratterizzano per una certa fissità espressiva, esasperata dal trucco e dal ricorso a photoshop. Pressoché inesistente qualunque propensione al movimento.
Le donne “emotive”, che
 si caratterizzano per gli stati “alterati di coscienza”, di solito innescati da prodotti
 di uso comune dove il linguaggio non verbale esprime 
un’età mentale imprigionata nella prima adolescenza: uno stato di estasi per un prodotto cosmetico per farsi la ceretta, euforica contentezza per una nuova cucina. Donne perennemente garrule che inducono dubbi sulle facoltà cognitive delle donne. Il ché fa capire che il problema del sessismo coinvolge non solo il corpo femminile.

 Ho lasciato per ultime quelle che sono più ricercate e forse le più degradanti e pericolose perché alimentano stereotipi di genere gravissimi che inducono a molestie e violenza. Quelle dove le donne vengono rappresentate “disponibili sessualmente”, pubblicità nelle quali il linguaggio del corpo suggerisce quella che, nella
 nostra quotidianità, decodificheremmo come disponibilità a un rapporto sessuale.

E poi le donne “preorgasmiche”, cioè quelle che vengono raffigurate in pubblicità con espressioni facciali che palesano un rapporto sessuale. Uno studio condotto anni fa che indagava su come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia, mostrava alcuni visi di donna in altrettante pubblicità preorgasmiche e simpaticamente domandava “L’ultima donna che hai visto così, cosa stava provando? 1) si sforzava di risolvere un’equazione di II grado; 2) era preoccupata per la pace in Medio Oriente; 3) altro.”

Gli esempi di questo arretramento possono essere numerosissimi (troppi purtroppo) che è impossibile citarli tutti. Basta, dunque, sentir dire che le donne possono potenzialmente fare tutto grazie alla loro intelligenza e a una straordinaria capacità di adattamento, è necessario che possano fare. L’attenzione alle disuguaglianze per lungo tempo è stato un problema considerato marginale nel contesto della formulazione delle politiche: l’idea largamente condivisa era che promuovendo la crescita economica sarebbe stato possibile procedere a una distribuzione dei benefici da essa derivati; anzi, il beneficio derivante dal progresso economico delle fasce di popolazione più ricche sarebbe “sgocciolato” sui più poveri: è questa la teoria del trickle down (sgocciolamento, appunto), che a dispetto di ogni dimostrazione ha garantito, per decenni, la più ingannevole impalcatura concettuale dello sviluppo. I fatti, come ho cercato di descrivere, dipingono invece una realtà profondamente diversa.

La parità, raggiungibile nell’attuale contesto sociale con le regole attuali, è un’altra ingannevole impalcatura. Quella che ci riguarda tutti e tutte ma che è definita “la questione femminile” è da considerarsi, “un’ingiustizia sociale naturalizzata”, ossia come qualcosa di naturale e quindi resa invisibile, che ricordiamo e riconosciamo solo quando ci sono alcune ricorrenze. La giornata dell’8 marzo, se non faremo nulla per cambiare - partendo anche dalle occasioni che i nuovi provvedimenti europei come il Next Generation UE ci accordano - rischia di essere inclusa per sempre tra queste ricorrenze.