L’Artico si è riscaldato quasi quattro volte più velocemente rispetto al resto del mondo negli ultimi 40 anni.
Lo sappiamo con chiarezza dal 2019, quando il gruppo di esperti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Giec) ha scoperto che l'Artico si stava riscaldando "più del doppio della media globale", come risultato di un processo specifico nella regione. Questo fenomeno, chiamato “amplificazione artica”, si verifica quando il ghiaccio marino e la neve, che riflettono naturalmente il calore del sole, si sciolgono nell’acqua di mare che assorbe più radiazioni solari e si riscalda. Lo studio ha rilevato significative variazioni locali nel tasso di riscaldamento all’interno del Circolo Polare Artico. Ad esempio, il settore eurasiatico dell’Oceano Artico, vicino alle Svalbard norvegesi e all’arcipelago russo New, si è riscaldato di 1,25 gradi Celsius per decennio, circa sette volte più velocemente rispetto al resto del mondo.
Un allarme sulla situazione in Antartide si era invece registrato nel 2022 quando la base franco-italiana Concordia aveva registrato temperature davvero impressionanti: nel bel mezzo dell’estate meridionale, la superficie del ghiaccio marino aveva raggiunto il suo minimo storico. Gaétan Heymes, ingegnere delle previsioni di Météo France aveva dichiarato: "la differenza di temperatura potrebbe essere paragonata a un caldo di 35 gradi Celsius a marzo a Parigi “. A differenza del Polo Sud, l’aumento delle temperature nell’Artico fanno parte di un forte riscaldamento della regione che è stato osservato per diversi anni e che ora si è accentuato.
Questo riscaldamento accelerato è il risultato di un circolo vizioso: "Le alte temperature sciolgono il ghiaccio e, poiché il ghiaccio riflette normalmente i raggi del sole, la sua scomparsa porta ad un maggiore assorbimento di questo calore solare, e quindi a un aumento delle temperature", così spiega il fenomeno Joel Guiot, direttore della ricerca presso il Centro europeo per la ricerca e l'educazione delle geoscienze ambientali.
Di fronte questo scenario, è evidente che siamo già entrati in uno stato di emergenza ma ignoriamo, consapevolmente, le contromisure necessarie per fermare questa escalation.
Nei primi anni Cinquanta del Novecento, in linea con l’approccio keynesiano alla politica economica, molti studiosi ritenevano indispensabile una certa dose di intervento pubblico per correggere gli squilibri generati dalle forze di mercato e porre rimedio ai gravi problemi che affliggevano le economie locali, alle disuguaglianze crescenti, all'impatto sull'ambiente.
Tale strategia pubblica appariva, complessivamente, la più idonea a promuovere lo sviluppo ma, diversi anni dopo la diffusione di un'economia fortemente globalizzata, di fronte alla pandemia, allo scatenarsi di nuovi conflitti e alle conseguenti crisi economica ed energetica, ci si è accorti che - nonostante il forte sostegno pubblico - il 63% di incremento della ricchezza netta globale è andato a finire nelle tasche dell’1% più ricco della popolazione, mentre solo il 10% è andato al 90% più povero.
Diverse società, soprattutto dei settori finanziario, farmaceutico, energetico e agroalimentare, anche in Italia, hanno più che raddoppiato i profitti, senza preocupparsi di portare avanti modelli di produzione in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.
Secondo il Fondo monetario internazionale, sempre più in futuro, i nuovi ostacoli agli scambi del commercio internazionale - causati dalla frammentazione della globalizzazione a causa delle contrapposizioni geopolitiche - potrebbero avere un impatto fino al 7% del PIL globale. Chi farà le spese di questa situazione saranno, innanzitutto, i Paesi con situazioni economiche e sociali più deboli, molte delle quali gravate da un forte debito pubblico, problema che riguarda anche l’Italia.
In questo quadro sarebbero (perlomeno) necessari:
- un massiccio investimento in tutto il mondo per mitigazione e adattamento al cambiamento climatico;
- la riconversione a sistemi di produzione e di consumo sostenibili, con minore uso di materiali e conseguente abbassamento delle fonti di inquinamento, riduzione della nostra dipendenza dal possesso di oggetti e utilizzo di servizi condivisi;
- una nuova e più produttiva concezione del lavoro per sconfiggere quello povero, pericoloso, sfruttato;
- un nuovo modello economico con una diversa solidarietà globale.
Al contrario, nel complesso, il sistema produttivo italiano - per parlare di ciò che succede a casa nostra - non ha ancora fatto il salto di qualità necessario di fronte alle trasformazioni in atto, non solo sul piano climatico. Diffusi comportamenti di greenwashing (l’ecologismo di facciata), o socialwashing (affermazioni fuorvianti su diritti civili e questioni sociali), caratterizzano l'operato di molte aziende in tutto il mondo.
La Direttiva sui doveri di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, approvata lo scorso maggio dall’Unione europea, nell'introdurre obblighi di due diligence sul rispetto di diritti umani e ambiente per le grandi imprese, rappresenterà però una cartina di tornasole.
Riguarderà anche il sistema produttivo presente nel nostro Paese (all'inizio solo le società di grandi dimensioni, entro 5 anni anche per le società minori) e si estenderà alle attività delle medesime società, delle controllate e dei partner commerciali inclusi nella catena di attività, anche al di fuori dell’Unione europea. La catena ricomprende tanto i partner che, a monte, operano nella produzione di beni o nella fornitura di servizi (comprese le fasi dell’estrazione, dell’approvvigionamento, della produzione, del trasporto, della fornitura di materie prime, di prodotti o parti di prodotti), quanto quelli che, a valle, svolgono attività correlate alla distribuzione, al trasporto e allo stoccaggio dei prodotti.
Come spiega Angelica Bonfanti, del Dipartimento di Diritto Pubblico Italiano e Sovranazionale dell’Università degli Studi di Milano, :"La Direttiva rappresenta un passaggio fondamentale nella garanzia dei diritti umani, dei lavoratori e dell’ambiente nelle catene globali del valore. Essa prevede tre principali ambiti d’azione: 1) l’introduzione di obblighi per le imprese in merito agli impatti negativi, effettivi e potenziali, sui diritti umani e l’ambiente, riconducibili alle loro attività, alle attività delle loro società controllate e dei partner che operano nelle loro catene di attività (cosiddetti obblighi di due diligence); 2) la responsabilità civile delle società per violazioni dei diritti umani e dell’ambiente lungo le catene di attività, riconducibili all’inadempimento degli obblighi menzionati e 3) la previsione dell’obbligo per le imprese di adottare e attuare piani di transizione per la mitigazione del cambiamento climatico."
In relazione a ciò, si apre una sfida importante anche per il Sindacato. Sui primi due punti che riguardano i diritti del lavoro e i diritti civili, il coinvolgimento del Sindacato è già presente e, comunque, è previsto che gli Stati debbano regolare la possibilità per sindacati e organizzazione non governative di presentare ricorsi a tutela delle vittime di violazioni. Il terzo punto è, invece, un campo per certi aspetti nuovo nelle relazioni negoziali, indubbiamente più impegnativo che richiederà maggiori competenze e un maggior attivismo da parte delle Organizzazione Sindacali, sia in merito alla contrattazione aziendale sia in quella territoriale.
A questo fine, infatti, i "Piani di Transizione" delle imprese dovranno "indicare obiettivi e scadenze fino al 2030 e in fasi quinquennali fino al 2050, sulla base di prove scientifiche e adeguati indicatori di misurazione" includendo "la descrizione delle principali azioni previste per raggiungere tali obiettivi, compresi, se del caso, i cambiamenti nei prodotti e nei servizi offerti dall’impresa, l’adozione di nuove tecnologie, oltre che la spiegazione degli investimenti e dei finanziamenti a sostegno della sua attuazione e del ruolo degli organi di amministrazione, direzione e controllo, e i progressi raggiunti."
Temi che coinvolgeranno necessariamente anche le lavoratrici e i lavoratori che quelle tecnologie dovranno utilizzare, che quei prodotti o quei servizi realizzeranno con il loro lavoro. Anche i cittadini dovranno essere coinvolti, in qualità di consumatori finali o residenti nei territori, nei quali, le tipologie di produzione determineranno degli impatti sociali, economici e ambientali.
Ora, con lo spostamento a destra da parte dell'elettorato di molti Paesi, il momento non sembra favorevole alla risposta globale ambiziosa e cooperativa necessaria. Ma questo non la rende meno necessaria.
* Foto di Jan Antonin Kolar su Unsplashperlomeno
Per la Redazione - Serena Moriondo