Di Gaetano Sateriale
Stiamo vivendo la più grave crisi economica dal 1945. Stiamo subendo il sovrapporsi a questa crisi di una emergenza sanitaria globale, paragonabile per impatto alla epidemia da “spagnola” di un secolo fa. Ciò ha un enorme impatto sulle condizioni di vita (di educazione, di lavoro e di reddito) della popolazione italiana, già colpita da un lungo ristagno economico e sociale, con particolare riguardo agli anziani, ai giovani, alle donne. Quali politiche vanno avviate per contrastare il rischio della recessione e disgregazione sociale che si profila? È immaginabile che una ripresa economica derivante dalle dinamiche di mercato risolva tutto? Anche l’Europa ne dubita e intende accantonare la visione rigorista con cui ha affrontato (sbagliando) la crisi del 2008.
Come nel dopoguerra arriveranno ingenti risorse estere da spendere per far ripartire l’economia. Ma non siamo il Paese dinamico che c’era allora. Il peso demografico degli anziani è molto più alto e quello delle giovani generazioni (fattore propulsivo della ripresa) molto più basso. Le nuove competenze stentano a trovare lavoro in Italia, crescono gli scoraggiati, le donne restano in casa a supplire nella cura della famiglia alle carenze dei servizi pubblici. Il mercato del lavoro italiano è congelato da anni in una domanda di lavoro che non trova la propria offerta e un’offerta che non trova i profili professionali richiesti: non c’è niente di più passivo delle cosiddette “politiche attive” del lavoro.
Ma non è sufficiente lubrificare (con sussidi) un meccanismo economico arrugginito, come molti pensano si debba fare perché la macchina riparta e il mercato torni a produrre e redistribuire ricchezza. La domanda interna è ferma e blocca la crescita economica da anni. Le diseguaglianze (sociali, anagrafiche, territoriali, di genere, di provenienza) sono cresciute negli ultimi decenni più della media europea. Le statistiche ci dicono che, nella grande incertezza verso il futuro, gli alti risparmi degli italiani non vengono né spesi né investiti e che l’ascensore sociale è fermo da anni.
Per invertire queste tendenze, segnalare e intervenire sulle emergenze è necessario ma non sufficiente, anzi, illusorio: perché alla fine delle crisi salteranno molte imprese e molti posti di lavoro legati ai mercati più tradizionali. Per spendere efficacemente le risorse europee (e italiane) è necessario allora cambiare il paradigma dell’intervento pubblico in economia: investimenti invece che spesa corrente, indirizzi programmatici di medio periodo e non provvedimenti congiunturali, partire dai bisogni che ci sono (domanda) e non dalle imprese che ci sono (offerta), favorire la nascita di nuovi mercati e nuove imprese, investire sulle competenze, creare nuovo lavoro. In sintesi, si potrebbe dire, una scuola e un lavoro che garantiscano una piena cittadinanza (non un reddito a prescindere).
Come può il sindacato, assieme alle altre forze sociali, favorire questo cambiamento di paradigma della politica economica? Non guardando solo ai propri rappresentati e alle emergenze in atto. Ma facendosi carico dei bisogni sociali più ampi che si sono manifestati in questi ultimi mesi (e in questi ultimi anni) e avviando dei percorsi di confronto e concertazione multilivello con le istituzioni di governo del paese e dei suoi territori.
Una scuola più frequentata e più aperta anche a fasce d’età che non frequentano più la scuola e che hanno bisogno di istruzione e aggiornamento continuo; una sanità territoriale in grado di fornire assistenza e presa in cura di prossimità e non gravare sulla struttura ospedaliera; trasporti pubblici efficienti ed ecologici; una nuova qualità dell’abitare più inclusivo e solidale (socialmente e anagraficamente), dotato di servizi domiciliari e di vicinato; più aree pedonali in tutti i quartieri; più spazi pubblici di relazione e aggregazione; maggiore verde urbano (pubblico e privato); la valorizzazione del patrimonio delle città (storico, architettonico, urbanistico, culturale); il riutilizzo di aree e immobili dismessi (a partire dalle caserme e dagli ospedali); l’interruzione del consumo di suolo; la transizione energetica; l’agricoltura bio; la riconversione in un’ottica di sostenibilità delle imprese di servizio locali (ex municipalizzate); la manutenzione del territorio e prevenzione dei rischi (ambientali, sismici, idrogeologici).
Questi alcuni ambiti in cui esiste una domanda urgente che chiede servizi e prodotti innovativi, anche (ma non solo) sul piano tecnologico. Questi alcuni filoni su cui ricostruire una identità e una cultura dell’abitare e del convivere. Questi alcuni titoli di ciò che noi chiamiamo “rigenerazione urbana”: una rigenerazione rivolta ai cittadini, alle loro condizioni di vita e alle loro relazioni nelle città e nel territorio e non una mera rigenerazione dell’edilizia esistente. Un’impostazione in coerenza, tra l’altro, con i principi della legge sulla rigenerazione in discussione in Parlamento. Su questi temi, in coerenza con gli indirizzi europei del green deal e della sostenibilità, bisognerà far atterrare nei territori progetti in grado di innescare l’innovazione e non solo di dare ossigeno a ciò che esiste. E il sindacato in questo può svolgere un ruolo importante di sensibilizzazione e mobilitazione.
Su questi temi è nata la nostra Associazione più di un anno fa e su questo intendiamo procedere, assieme alle altre categorie e alle strutture confederali territoriali. Anche perché la realtà non sta ferma: la legge in discussione sulla Rigenerazione chiede di fare piani di rigenerazione urbana a tutti i Comuni italiani in forma partecipata dai cittadini. Perché anche la “rigenerazione” non diventi solo un termine di moda è necessario che alla definizione delle nuove linee programmatiche di investimento partecipino anche i sindacati, per quello che rappresentano e come soggetto importante della rete delle rappresentanze sociali.