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di Serena Moriondo

Genova Pegli le lavatrici del cepRisulta sin troppo facile, guardando queste foto, dipingere scenari disastrosi delle periferie e, se ciò non permette di comprendere i reali e complessi processi in corso, consente però di capire perché molte periferie hanno sofferto e continuino a soffrire di una forte “stigmatizzazione territoriale”.

Loïc Wacquant, docente all'università di Berkeley e ricercatore al Centro di sociologia europea del Collège de France, nel riferirsi al concetto di periferia come “quartieri dell’esilio” nel libro “I reietti della città. Ghetto, periferia, stato“ (2008), sostiene che cercare di comprendere l’eterogeneità con uno sguardo omogenizzante rende errata l’interpretazione tanto sul piano analitico quanto sul piano politico, in quando, impedisce di pensare a politiche adeguate ai diversi contesti socio-spaziali, producendo errori ulteriori. La storia dovrebbe insegnarci qualcosa anche nell'individuare, in modo coerente, le possibili vie d’uscita e su questo Wacquant è chiaro. Da un lato, vanno cambiate le pratiche sociali, comprese quelle del mondo dell’informazione, che favoriscono la stigmatizzazione socio-territoriale di alcune aree delle città. Dall’altro lato, va cambiata la politica statale perché “se vogliono avere un impatto significativo, le politiche pubbliche volte a combattere la marginalità avanzata dovranno spingersi oltre il perimetro ristretto del lavoro salariato e muoversi verso l’istituzionalizzazione di un diritto alla sussistenza che si situi al di fuori della tutela del mercato”.

CataniaSono molte le ricerche che hanno voluto ricostruire la storia delle periferie, simboli dell'Italia del dopoguerra e della svolta post industriale degli anni ’70 come Librino a Catania, Zen a Palermo, San Paolo a Bari, Scampia a Napoli, Corviale a Roma, Begato a Genova, Quarto Oggiaro a Milano, le Vallette a Torino, solo per citarne alcune, facendo emergere i tratti e le caratteristiche dello sviluppo di questa dimensione urbana. Si tratta di cattiva pianificazione nell’edilizia sociale pubblica non tanto (o non solo) dal punto di vista architettonico (gli architetti furono ispirati dall’architettura razionalista di Le Corbusier e con una forte impronta idealista) quanto piuttosto per progettazioni ed edificazioni incompiute, “vuoti urbani afflitti dalla mancanza di infrastrutture”, senza collegamenti con le altre parti della città, senza spazi sociali.

Vele di Scampia I problemi e le carenze delle sette unità di abitazioni denominate Vele di Scampia, ad esempio  - nate nel 1968 per dare risposte alla crescente domanda di abitazioni per fasce popolari - emergono rapidamente, accentuando i disagi sociali ed economici dell'area (limiti funzionali, negazione di ogni inclusività, degrado, sovraffollamento, assenza di pertinenze connesse alle abitazioni, ecc.) tanto che trent’anni dopo, l'Amministrazione comunale decise di distruggere i primi tre edifici (1997, 2000 e 2003). Oggi “Restart Scampia - Da margine urbano a nuovo centro dell'area metropolitana” è un progetto di riqualificazione che prevede, entro il 2021, oltre all’abbattimento di altre tre vele e la riqualificazione di una quarta, anche l'accrescimento dei servizi e il rafforzamento delle attrezzature collettive e nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Così come la pianificazione pubblica ha prodotto “i quartieri dormitori” il versante privato non fece di meglio, permettendo la costruzione abusiva e la speculazione edilizia. Vi sono molti studi che hanno sottolineato come in Italia, nonostante interventi legislativi in materia di edilizia popolare e residenziale, è tradizionalmente mancata una vera politica urbana. Una serie di strumenti più recenti, come ad esempio, i programmi integrati di intervento, di riqualificazione e recupero urbano e i contratti di quartiere e ancor più recentemente il Programma straordinario per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie e il Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare, sono stati sperimentati ispirandosi anche a strumenti funzionali analoghi predisposti in Paesi come la Francia e la Gran Bretagna. Le iniziative promosse dall’Unione europea hanno avuto un indiscutibile ruolo propulsivo nella diffusione nel nostro Paese di questi strumenti, in taluni casi però, le procedure attuative messe in campo sono risultate meno efficaci che in altri Paesi europei.

CORVIALE RomaIl modello industriale capitalistico neoliberale, il processo di terziarizzazione hanno condizionato duramente la configurazione delle periferie urbane in termini di precarizzazione e vulnerabilità, nuove povertà. Oggi quei quartieri hanno perso anche quella forte identità sociale, proletaria, che li aveva caratterizzati all’origine, là dove si era sviluppata. Un’eccezione è rappresentata dalla Città di Roma, nella quale un terzo degli abitanti vive nelle periferie, pur in presenza di una urbanizzazione senza industrializzazione (solo la Città Metropolitana di Roma si estende su territorio molto vasto, grande quasi cinque volte la Città Metropolitana di Milano e con una superficie di poco inferiore alla Regione Liguria).

Napoli quartieri spagnoliVi sono studiosi che hanno rifiutato la categoria di periferia proponendo l’idea di “quartieri sensibili”, porzioni di città che rischiano uno scollamento tra dimensione funzionale e dimensione sociale comunitaria. Per questo, secondo questa visione, i quartieri sensibili sono tali non tanto sulla base della loro collocazione geografica nelle città, quanto sulla base di un disequilibrio sociale presente in essi. E questo è ancora più evidente oggi, con l’avanzare dei processi di urbanizzazione estensiva del territorio dove a mancare sono i servizi commerciali, sociali, culturali, sanitari, le infrastrutture per la mobilità, mentre prolificano discariche, roghi di materiali tossici fino allo smaltimento illegale di rifiuti e vicinanza a luoghi indesiderati, come campi rom, che condannano questi quartieri all’emarginazione alla stigmatizzazione territoriale. In atre parole, i problemi che emergono dalle periferie non possono venire adeguatamente affrontati se non si tengono presenti fenomeni sociali complessi come la disoccupazione, l’abbandono scolastico, l’inquinamento ambientale, ma anche l’abusivismo edilizio che oramai ha raggiunto il 6.4% dell’intero patrimonio ERP, cioè 49mila abitazioni occupate abusivamente; la criminalità organizzata; le mafie. Fenomeni, quest'ultimi, che hanno prodotto comunità separate, dove lo Stato non esiste o viene rifiutato. Luoghi, dove la stigmatizzazione porta a una rivendicazione di un senso di appartenenza e di sottocultura, pensiamo a quei complessi periferici noti perché hanno assunto nomi che dileggiano le loro architetture: le dighe, le vele, le lavatrici, il treno, ecc.milano quartooggiaro

Nei territori densamente urbanizzati del nostro Paese vivono, al di fuori dei centri storici e delle aree centrali, oltre 17,4 milioni di persone (Fonte: Relazione Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie). La diffusione della precarietà e delle vecchie e nuove povertà materiali e culturali in diversi strati sociali, sta determinando un fatto ancora ampiamente sottovalutato: la “periferia”, ha scritto il sociologo Franco Ferrarotti, non si contrappone alla città ma è, in misura sempre crescente, nella città stessa, suo riflesso. Per questo egli sostiene che “la sfida che una politica urbana all’altezza della situazione dovrebbe affrontare è quella di portare risolutamente il centro (ovvero i servizi e la qualità della vita) nella periferia.” Né si può pensare che i piani di recupero possano essere caratterizzati soprattutto dal solo recupero edilizio, senza quindi piani di rigenerazione economica, sociale e ambientale come prevedono gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile. E’ questa la visione per cui si battono da decenni molte associazioni, comitati locali, la Fillea Cgil, i sindacati confederali e la politica sana di questo Paese.

Periferia diga begatoOltre l’insuccesso, il rischio principale determinato dal recupero e dal rilancio di molte aree degradate delle nostre città è la gentrificazione: cioè che gli investimenti associati a interventi di economia culturale si traducano in un miglioramento del quartiere nel momento in cui questo espelle gli abitanti più poveri e con minori risorse sociali. Paola Briata, Massimo Bricocoli e Carla Tedesco nel loro libro “Città in periferia. Politiche urbane e progetti locali in Francia, Gran Bretagna e Italia” (2009) sostengono che si registra “una crescente incapacità della città contemporanea di ‘dare luogo’ agi individui che vivono in condizioni di svantaggio”. L’architetto Renzo Piano sostiene che “Il grande progetto del nostro Paese sono le periferie: la città che sarà, la città che lasceremo ai nostri figli”. Per questo egli ha promosso il gruppo di lavoro G124, costituito da giovani architetti sotto i 35 anni che hanno il compito di produrre studi di “rammendo urbano” sulle periferie, al fine di evitare che le risorse disponibili siano investite in una costruzione compulsiva. Il degrado delle periferie urbane insieme allo spopolamento delle aree interne sono due dei più importanti temi posti dalla Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, pubblicata a dicembre 2017.

Se è vero, dunque, che si afferma, preponderante, un “bisogno di città” diventa impellenteFoto street art Napoli capire che tipo di città vogliamo, per chi e come intendiamo realizzarla, aggiornando gli strumenti di regolazione per le costruzioni (non solo abitative) e partendo da una progettazione che coinvolga le persone di tutte le età.

Foto street art napoli 2Foto, nell'ordine: Lavatrici-Genova Pegli; Librino-Catania; Vele-Scampia Napoli; Corniale-Roma; Quartieri Spagnoli-Napoli; Quarto Oggiaro-Milano; Diga-Begato Genova; espressioni di street art nelle periferie