di Serena Moriondo
La deregolamentazione americana voluta negli Stati Uniti da R.Regan negli anni ‘80 si pone come una diversa via di liberismo di mercato, che si affianca alla stagione delle privatizzazioni, avviata nello stesso periodo da M.Thatcher in Gran Bretagna. Come conseguenza di questa impostazione economica, a partire dalla prima metà degli anni ’90, sostanzialmente, tutti i Paesi europei hanno dato avvio a processi di deregolamentazione dei loro mercati del lavoro. Tramite una compressione del lavoro (e dei diritti) si teorizzava la ripresa occupazionale, soprattutto per quei segmenti della forza lavoro la cui partecipazione al mercato era tradizionalmente più contenuta. In Europa, le misure di deregolamentazione definite di “deregolamentazione parziale e selettiva” sono state variamente concentrate su alcuni segmenti della forza lavoro “non standard” nel tentativo di minimizzare lo scontro sociale. Il risultato più evidente è stata la contrapposizione degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, soprattutto sul piano generazionale, ma non solo.
La creazione di un mercato del lavoro fortemente segmentato è stata poi criticata da una prospettiva sia economica sia sociologica e alcuni autori, oggi, annoverano la forma contrattuale del rapporto di lavoro tra le più rilevanti dimensioni di diseguaglianza sociale ed economica. L’esplosione dell’area della atipicità contrattuale e il deperimento della norma inderogabile di legge e di contratto collettivo non sono certo una caratteristica evolutiva propria del solo mercato del lavoro italiano. Vero è, tuttavia, che tutti gli altri Paesi dell’area OCSE non conoscono una degenerazione analoga a quella che si è verificata nel nostro Paese dove il lavoro nero e irregolare viene stimato in cifre percentuali due / tre volte superiori alla media europea (M.Tiraboschi, 2001). L’Italia, in questo panorama, è fra i Paesi che - tra il 1990 e il 2015 - più hanno deregolamentato “ai margini”, sviluppando una sostenuta segmentazione del proprio mercato del lavoro finendo per mettere in discussione la tenuta sociale del Paese.
Più si deregolamenta ai margini, più la segmentazione diviene irreversibile, dato che il lavoro flessibile diviene sempre più lavoro “usa-e-getta”, progressivamente dequalificato (perché riceve meno formazione, salari più bassi, maggiori discriminazioni). Al riguardo, da anni, sono diversi i contributi - a partire da ILO e sindacati - che mettono in luce le conseguenze devastanti di queste politiche economiche, in primis, sulle giovani generazioni e sulla forza lavoro femminile. Dieci anni fa, la stessa OCSE raccomandava un riequilibrio della legislazione a protezione di permanenti e temporanei: “[..]farlo consentirebbe al lavoro a tempo determinato di funzionare in maniera più efficiente non come una trappola ma piuttosto come trampolino verso il lavoro permanente [..] il ribilanciamento della legislazione dovrebbe poi essere introdotto come parte di un pacchetto complessivo capace di garantire un adeguato sostegno al reddito in caso di disoccupazione” (Fonte: Ocse Employment Outlook, 2010). In Italia, neppure l’impatto drammatico della pandemia sulle condizioni di vita di milioni di persone ha consentito, finora, di trovare un’intesa verso un moderno ed efficace sistema di ammortizzatori sociali.
In compenso, un periodo trentennale di deregolamentazione ha aumentato i profitti delle grandi corporazioni, sfruttato l’ambiente fino a comprometterne il delicato equilibrio, ha sostenuto il potere finanziario globale, ha favorito l’abbattimento delle tasse delle multinazionali, ha permesso le delocalizzazioni nei Paesi con basse tutele sindacali e talvolta privi dei diritti umani fondamentali. In altre parole il capitalismo ha aumentato il potere di alcuni, dimenticando il restante 90% della popolazione.
Tutto ciò che è avvenuto ha, dunque, comportato importanti cambiamenti non solo sul piano economico ma anche su quello sociale e relazionale. Da alcuni anni, lo sviluppo degli artefatti costituiti dalle nanotecnologie, le biotecnologie, l'informatica e le scienze cognitive sta nuovamente e profondamente cambiando le condizioni di vita e di lavoro, una realtà che sta determinando una svolta fondamentale per tutte le forme di vita su questo pianeta.
E qui che nasce una interessante riflessione tra "funzionamento" ed "esistenza", che non dovrebbe portarci a scegliere l'una o l'altra dimensione, piuttosto a ricondurle a unità dato che sarebbe un errore credere che gli uni possano emanciparsi dagli altri o che il funzionamento possa colonizzare la nostra esistenza senza conseguenze. Uno dei sintomi oggi più evidenti di tale distinzione (tra il funzionamento e l'esistenza) è il modo in cui sono considerate le persone anziane e i giovani.
Miguel Benasayag - filosofo e psicanalista, originario dell’Argentina, dove sotto la dittatura ha conosciuto più volte il carcere e oggi, a Parigi, si occupa di problemi dell’infanzia e dell’adolescenza e dell’interazione tra tecnologia ed esseri umani - nel suo libro “Funzionare o esistere”, scrive: “Anziani considerati ormai ‘vecchi’, fuori dal ciclo produttivo e soprattutto da quello del consumo. Giovani che non hanno più il diritto di essere giovani, ma sono inseriti da subito nella giostra delle competenze da acquisire, dei risultati da conseguire, con l’imperativo di essere ‘imprenditori di se stessi’. Fragilità umane di tutti noi che vengono stigmatizzate come intoppi nella realizzazione di una felicità del qui e ora, col risultato di impregnarci di angoscia e paura del futuro.”
La pandemia ha peggiorato tale percezione. Benasayag sostiene che abbiamo solo due strade per affrontare questa situazione: o esigendo un sapere assoluto, che significa vivere nell’immediatezza senza però poter tener conto di variabili sconosciute, delegando le nostre scelte, con fiducia cieca, alla sola tecnologia, in sostanza accettando un meccanismo di funzionamento anzichè di esistenza; o essere coscienti che per agire dobbiamo accettare la complessità senza avere il sapere assoluto, che è necessario pensare e osservare.
Bisogna saper assumere la fragilità della vita, senza isolarsi, senza cadere nell’individualismo che rischia di far emergere forme di intolleranza, di xenofobia, per farlo però bisogna avere coraggio. Il coraggio si dimostra vivendo e affrontando la complessità insieme. Il rifiuto della negatività è una debolezza, non aiuta neppure a recuperare il rapporto con l’ecosistema che stiamo distruggendo. “Viviamo - egli scrive - nell’ombra di una minaccia grave e generalizzata: quella di una deregolazione ecologica globale i cui effetti sempre più massicci (riscaldamento climatico, massacro della biodiversità, inquinamento dell’aria e degli oceani, esaurimento delle risorse naturali) già colpiscono nell’insieme il pianeta, le società umane. La percezione è ben reale ma sembra rimanere a un livello sfocato senza essere vissuta direttamente.”
Il Collettivo “Malgré Tout” (Malgrado tutto) di cui Benasayag è fondatore, sostiene che “Per comprendere meglio la questione della percezione diffusa di una minaccia astratta, è utile rifarsi alla distinzione − proposta in principio dal filosofo tedesco Leibniz e ripresa poi in neurofisiologia − tra percezione e appercezione. L’essere umano, come tutti gli organismi viventi, vive in costante interazione materiale con l’ambiente. La percezione consiste in questo primo livello d’interazione costituito dall’insieme di “accoppiamenti” percettivi che l’organismo forma con l’ambiente fisico-chimico ed energetico.
Per illustrare questo dispositivo, Leibniz fornisce l’esempio di come comprendiamo il suono di un’onda. Spiega che abbiamo una percezione infinitesimale dei milioni di goccioline d’acqua che colpiscono il nervo uditivo, senza essere in grado di percepire il suono di ogni goccia d’acqua. È solo a un secondo livello, nella dimensione dei corpi organizzati, che possiamo costruire l’immagine sonora di un’onda. Ciò significa che solo una piccola parte di ciò che percepiamo della base materiale diventa un’appercezione e partecipa quindi ai fenomeni di coscienza.
La questione centrale è, quindi, capire quando e perché emerge un’appercezione. Ciò è determinato innanzitutto dall’organismo che percepisce: un mammifero e un insetto non produrranno, ovviamente, la stessa immagine appercettiva di un’onda. Nel caso degli animali sociali e in particolare degli umani, l’appercezione è anche condizionata dalla cultura e dagli strumenti con cui essi interagiscono con l’oggetto (gli ultrasuoni sono un buon esempio di come funzionano questi raccordi: a differenza di alcuni mammiferi, gli umani non percepiscono queste frequenze sonore senza articolare il loro sistema percettivo attraverso strumenti tecnologici che permettono di far emergere una nuova dimensione appercettiva).
Un’appercezione non è da considerarsi necessariamente come la specificità di un solo individuo o il risultato di una soggettività individuale. Una singolarità può essere composta da un gruppo di individui, per giunta di natura molto diversa (animali, vegetali o persino un ecosistema), che partecipa alla produzione di una interpretazione appercettiva comune."
Correntemente, questa dimensione si manifesta nella forma di ciò che siamo abituati a chiamare senso comune, che agisce socialmente come un’istanza reale di significato condiviso. Oggi, ad esempio, per la prima volta, tutta l’umanità produce un’immagine della minaccia. Questa immagine non si riduce a una conoscenza scientifica dei fatti che hanno portato alla comparsa e alla diffusione del virus.
"Ciò che è profondamente in gioco è l’emergere di un’esperienza condivisa della fragilità dei sistemi ecologici, che è stata finora negata e schiacciata dagli interessi macroeconomici del neoliberismo. La particolarità di questa appercezione comune sta nel fatto che, paradossalmente, non è la pericolosità intrinseca della pandemia che la sta causando, ma piuttosto il sistema disciplinare che la accompagna (distanziamento sociale).
Di fronte a questa nuova situazione, vediamo emergere due interpretazioni opposte. Da un lato, chi afferma che questo è un fatto molto grave, per il quale ci si limita a chiedere una soluzione nella forma di un vaccino e di una cura senza però mettere in discussione il paradigma del pensiero e dell’agire dominanti. La seconda, pur riconoscendo la necessità di una cura, vede in ciò che sta avvenendo con la pandemia anche una sfida irreversibilmente all’ideologia produttivistica fino a ora egemonica. In sostanza un punto di non ritorno a partire dal quale il nostro rapporto con il mondo e il posto degli umani negli ecosistemi devono essere profondamente messi in discussione".
Se facciamo lo sforzo, nonostante la sofferenza della situazione, di non rinunciare al pensiero, è possibile scorgere l’unica cosa che questa crisi ci permette di sperimentare positivamente: la realtà dei legami che ci costituiscono. Nel bel mezzo della crisi abbiamo acquisito almeno una certezza: nessuno si salva da solo. La vita individuale e la vita sociale ci appaiono come due facce della stessa medaglia. Obbligati all’isolamento, scopriamo di essere attraversati da molteplici legami che non corrispondono affatto al disegno thatcheriano secondo il quale “non c’è società ma solo individui".
Buon Ferragosto!
Immagine: "La grande onda di Kanagawa", xilografia in stile ukiyo-e del pittore giapponese Hokusai pubblicata la prima volta tra il 1830 e il 1831