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Disegno piramide ricca del sociale del dei lavoratori migranti 83383103di Serena Moriondo

Si chiama "Effetto San Matteo", si rifà al Vangelo secondo Matteo 13,12 là dove recita “Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chiunque non ha, sarà tolto anche quello che ha”. Così potremmo descrivere il crescente divario tra ricchi e poveri (e tra paesi sviluppati e in via di sviluppo), un divario che ha aumentato le disuguaglianze e ampliato la trappola della stratificazione sociale. 

L’Effetto San Matteo mostra effetti equivalenti a quelli economici in diversi altri contesti come l'educazione, la salute e altri. Le sue conseguenze si misurano su diversi aspetti, in modo contrapposto: da un lato, l’apporto di una maggiore quantità di benefici, tanto materiali (economici, risorse, premi) come immateriali (privilegi, considerazione, fiducia, potere, stima) per il semplice fatto di essere posizionati al massimo in una determinata scala sociale; d’altro, la riduzione o l’annullamento di benefici di qualsiasi tipo alle persone che hanno “meno valore” rispetto a determinati parametri considerati rilevanti. In tal modo si generano processi di emarginazione ingiustificati e ingiusti.

Lasciata a sé, questa è l'inevitabile deriva delle società di mercato dove il profitto si globalizza; dove la fede nel sistematico e perpetuo miglioramento dell’umanità grazie alla crescita economica è incrollabile; dove la politica progressista ha rivelato connotati moralistici e paternalistici (Antonella Besussi “La Società Migliore: principi e politiche del New Deal”, 1992 ) senza ostacolare il divario sempre maggiore tra chi ha di meno e chi ha di più, in termini di ricchezza, istruzione, salute, opportunità, benefici tangibili e intangibili.

Ma oggi siamo ad un bivio.

Anche senza voler affrontare il problema per quel che è realmente (un conflitto d’interessi tra ricchi e poveri, uno sfruttamento senza eguali di esseri umani su altri esseri umani e sulla natura), progettare un cambiamento, per la sopravvivenza di tutti, basato sull’idea che si possa garantire massima crescita e piena uguaglianza perché le risorse a disposizione della società possono diventare illimitate grazie ai miglioramenti che potranno intervenire sul piano tecnologico, è una prospettiva irreale e limitante (un esempio: si stima che la metà delle riduzioni necessarie per la neutralità carbonica richieda la commercializzazione di tecnologie ancora in fase di prototipazione).

Nonostante le buone intenzioni contenute nell’Accordo di Parigi sul clima, non si vede ancora alcuna azione politica di cambiamento indispensabile per affrontare la seria situazione in cui ci siamo messi. E il Patto sottoscritto alla Cop26 di Glasgow ne è un preoccupante esempio.

Lo stallo in cui si trovano i sistemi politici attuali ci conferma l’urgenza di sviluppare modelli socio-economici alternativi, indubbiamente impegnativi per tutti, per chi governa, per chi consuma e per chi produce.

Da Marx in poi, in tante e in tanti si sono chiesti come cambiare un mondo diseguale, ma ora la crisi - sia questa ambientale, economica, migratoria, sociale, come uno shock improvviso - ci mette di fronte ancor più alle profonde ingiustizie sociali e ai limiti della condizione attuale.

E’, quindi, la concezione di progresso che deve essere rimessa in gioco. Questo è un tema della modernità (Jhon B.Bury, la definirà nel 1932 “l'idea animatrice e dominante della civiltà occidentale”) che deve ispirare una nuova azione politica che ci riguarda tutti.

Una prospettiva (realmente progressista) che voglia sviluppare una reale ed efficace alternativa di fronte alle crisi, dovrà superare quello che E.Biale e C.Fumagalli * chiamano “il realismo acritico proprio del riformismo senza però incorrere nei problemi di radicalismo. (…) Realizzare ciò – scrivono gli autori – richiede di definire alternative che né riproducano né neghino le attuali circostanze politico-sociali, ma che le amplino, allargandone i confini e includendo al loro interno aspetti fino ad ora non considerati (…).“

Si ha allora progresso, non quando produciamo ricchezza  - per pochi, sulla pelle di molti, danneggiando, a lungo andare, tutti - ma “quando mettiamo in discussione pratiche, abitudini, ordinamenti normativi, presupposti teorici, riti, idee che ostacolano l’avanzamento verso un’umanità in cui ogni individuo realizzi le proprie potenzialità”.

Ciò nonostante per raggiungere questo percorso si possono prendere varie strade. Dovremmo allora pensare al progresso come l’esito di azioni reali e concrete volte a modificare gli aspetti sociali, politici ed economici che ostacolo i diritti civili e frenano l’avanzamento dell’umanità verso un ordine giusto, un ordine in cui anche la centralità dell’essere umano rispetto alla natura è messa in discussione.

Enrico Biale è docente di Etica Pubblica all’Università del Piemonte Orientale e Sociologia all’Università di Genova; Corrado Fumagalli è un ricercatore e uno dei fondatori di A-id: Agenda for International Development