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Dipinto guernica arms raised detail 400Il 6 dicembre del 2007 un’esplosione nello stabilimento dell’acciaieria ThyssenKrupp a Torino causò la morte di sette operai. La responsabilità di quelle morti venne attribuita con sentenza definitiva nel 2016, per mancanza di adeguate misure di sicurezza, a sei dirigenti della società, quattro italiani e due tedeschi. Questi ultimi sono ritornati in Germania e non hanno mai scontato la pena. Questo caso è l’emblema di una strage che perdura da decenni, un’ingiustizia che si perpetua ogni giorno, sempre uguale, sempre dolorosa. Nessun Governo l’ha mai fermata. A prevalere sono arroganza, profitto, spregio per la vita umana.

Con gli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza nascono cantieri ovunque e a mancare non sono solo i ponteggi ma anche i lavoratori specializzati. Insieme ai ritmi di lavoro, per tenere testa alle commesse a condizioni impossibili, aumentano i rischi. Lo confermano i dati delle denunce all'INAIL che fotografano un balzo dei casi di incidenti anche mortali nel settore delle costruzioni. Le vittime, over 60, sono lavoratori costretti ancora a salire sui ponteggi a causa della discontinuità contributiva o per le pensioni troppo basse.

La Fillea Cgil ha avanzato da tempo delle proposte: un’adeguata formazione sulla salute e la sicurezza a partire dall’età scolastica, una patente a punti che qualifichi le imprese ed escluda dagli appalti pubblici quelle in cui avvengono molti infortuni e il rafforzamento dell’attività ispettiva investendo nella prevenzione. Ora è arrivato il momento di introdurre nel codice penale l'aggravante per il datore che si rende responsabile di infortuni mortali.

Gli incidenti avvengono in tutti i settori, non solo in quello edile, nella maggioranza dei casi vengono disattivati i dispositivi di sicurezza automatici e, come nel caso della ThyssenKrupp per una precisa politica aziendale della sicurezza addebitabile ai vertici supremi dell’azienda che riguardava l’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche.

Quella delle morti nel lavoro è sicuramente la circostanza più grave ma vi sono anche altri casi di cui si parla oramai troppo poco. Sono passati cinquant’anni da quando, per la prima volta, anche la magistratura ha preso ad interessarsi in maniera non episodica al fenomeno delle malattie professionali. Da quando iniziò il Prof. Ivar Oddone, con l’esperienza dell'Acciaieria Mandelli di Collegno dove fu fatto il primo accordo sull’ambiente di lavoro in Italia o il modello della partecipazione nella prevenzione delle malattie alla Fiat di Mirafiori a Torino, si potrebbe pensare che nei decenni ci sia stato un intervento forte della magistratura e una ricca elaborazione giurisprudenziale in materia di malattie professionali. Ma non è così. Bisogna dire con onestà che gli uffici giudiziari non sono stati affatto travolti dai procedimenti penali per malattia professionale; ancora oggi se ne iniziano pochissimi in tutta Italia e molti di questi pochi non arrivano a dibattimento. Il numero delle malattie professionali denunciate in Italia si attesta ormai ogni anno intorno alle cinquantamila, ma se ne indagano neanche un quinto. Inoltre le malattie attese in realtà, secondo gli epidemiologi, sarebbero molte di più. Ma nonostante il vertiginoso aumento degli ultimi anni, per qualche “misteriosa” ragione o non vengono diagnosticate o non vengono denunciate.

Se si leggono i verbali di interrogatorio di molti imprenditori da parte della Direzione distrettuale antimafia di Milano emergono considerazioni sul radicamento al Nord delle imprese edili controllate dalla mafia, a sfondo utilitaristico: “Dopotutto il lavoro lo fanno bene e a prezzi che sono la metà rispetto a quello praticato da imprese lombarde” . In certe situazioni -  scrivono gli esperiti di organizzazioni criminali – si coglie un assoluto disprezzo per il bene comune: “Non ero interessato a sapere se pagassero le tasse, avessero lavoratori in nero o rispettassero le norme di sicurezza sui cantieri. Dovevo pensare solo al bene della mia impresa, che era quello di aumentare i profitti”. C’è voluto molto tempo per capire che le mafie non sono figlie della povertà, quanto piuttosto della logica clientelare, delle trattative, della legittimazione sociale e politica, della mediazione interessata e della mancanza di etica del lavoro e delle professioni (“Complici e colpevoli”, Gratteri e Nicaso, ed.Mondadori, novembre 2021, pp.138-139).

Tutto ciò genera una situazione che non può essere tollerata in uno stato di diritto.

E allora, Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e tutte le persone che ancora muoiono, come loro, lavorando, che contraggono malattie professionali irreversibili, che rimangono gravemente infortunate, sono ancora in attesa di giustizia.

Per la Redazione - Serena Moriondo