“C’è ancora molto da fare, al di là di qualche progresso tecnico”: questa la frase ufficiale che riassume i risultati della Conferenza di Bonn conclusasi il 16 giugno. Ci si aspettava molto da questo incontro che doveva preparare gli accordi in vista della Cop 27 di Sharm el-Sheik, in Egitto, a novembre, soprattutto dopo il sostanziale fallimento del vertice dello scorso anno a Glasgow, ma così non è stato.
I Governi non vanno al passo con la realtà.
Ancora una volta, potremmo dire per l’ennesima volta, la traduzione in azioni concrete delle decisioni indicate dalla comunità internazionale nell’Accordo di Parigi sul clima del 2015 e i numerosi appelli degli scienziati, si scontrano con un ostacolo apparentemente insormontabile: l’incapacità dei governi di tutto il mondo di trovare un’intesa sul finanziamento necessario per limitare la crescita della temperatura media globale e aiutare i Paesi in forte ritardo sulla transizione.
Era il 2009 e al termine della Cop 15 di Copenaghen la comunità internazionale indicò il prezzo da pagare per evitare la catastrofe climatica: 100 miliardi di dollari all’anno. Principalmente a vantaggio delle nazioni del Sud del mondo, ovvero le più colpite dal climate change e, allo stesso tempo, le meno responsabili dell’inquinamento che lo ha causato. Ora si sta discutendo della creazione di un nuovo obiettivo finanziario che deve andare oltre quello dei 100 miliardi di dollari che i Paesi industrializzati avevano promesso di raggiungere entro il 2020.
Dopo la prima pubblicazione che ha spiegato perché il clima sta cambiando, la seconda che ha analizzato impatti e urgenza di adattarsi, con la terza parte dedicata alle politiche di mitigazione, diffusa il 4 aprile, è stato completato sesto rapporto (assessment report 6) dell’Ipcc, il Panel intergovernativo che funge da supporto scientifico alla Conferenza Onu sul cambiamento climatico. Come le prime due parti, anche questa costituisce una sintesi tratta da migliaia di pubblicazioni scientifiche. Siamo di fronte al più ampio e accurato lavoro mai fatto sul cambiamento climatico. Ma i Governi del mondo, irresponsabilmente, non ascoltano e continua ad esserci un divario enorme tra il taglio necessario per evitare la catastrofe e gli attuali NDC (contributi volontari nazionali).
Il rapporto dell’UNEP, l’agenzia per la protezione ambientale delle Nazioni Unite, lo scorso anno denunciava come le emissioni, di questo passo, nel 2030 sarebbero cresciute del 13,7% invece che diminuire. Per rispettare l’impegno sottoscritto a Parigi, l’Italia dovrebbe tagliare del 92% le proprie emissioni entro il 2030. Rimanere sotto la soglia di 1,5°C è possibile solo con una immediata diminuzione delle emissioni di gas serra, raggiungendo emissioni nette pari a zero entro il 2050.
Il Rapporto ASviS 2021, in riferimento al Goal 13 (Lotta contro il cambiamento climatico), sottolinea che in Italia, pur a fronte dell’impegno nei consessi internazionali per la promozione degli impegni più ambiziosi, la lotta ai cambiamenti climatici non viene identificata come il volano per la ripresa economica. Nemmeno il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), secondo il documento, risulta incisivo nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori chiave.
La crisi idrica sta facendo emergere le responsabilità di un sistema di gestione disinteressato al surriscaldamento globale e caratterizzato da una decennale mancanza di pianificazione e investimenti infrastrutturali perché piegato ad una logica privatistica che punta a massimizzare i profitti.
Il Po, maggiore fiume italiano, dopo inverno, primavera, inizio estate asciutti e montagne senza neve è in agonia. Eppure continuiamo ancora a buttare le acque piovane, quando piove, nelle fogne, non le raccogliamo in bacini per le emergenze; non ci si preoccupa di armonizzare le varie esigenze idriche in base alle reali disponibilità: non si interviene sul dissesto idrogeologico; non si interviene a ridurre le perdite delle reti idriche (nel 2020 è andata persa il 36,2% dell’acqua immessa in rete). Inoltre, l’eccessiva pressione antropica, insieme concausa e aggravante della crisi climatica, ha finito per abbassare le falde e reso molto più lenta la ricarica. Tutti questi fattori si legano tra loro.
Gli obiettivi per mitigare e influenzare il cambiamento climatico, in sostanza, richiedono rapide riduzioni delle emissioni, impegni precisi, azioni concrete, coordinamento tra gli interventi, investimenti chiari, cronoprogramma credibile, bilanci coerenti. Obiettivi che andrebbero concretamente portati avanti attraverso il coinvolgimento e la partecipazione indispensabile di comunità, reti sociali, imprese, cittadini e Istituzioni. Finora siamo stati ben lontani dal riuscirci ma non c’è più spazio per le mezze misure. E’ ora di pensare e agire in grande e, soprattutto, nella direzione giusta.
Per la Redazione - Serena Moriondo