di Gaetano Sateriale
Il 5 luglio a Bologna al DAMSLab si è tenuto il Forum “In Dialogo”, organizzato dal Gruppo Rimediare (si veda il bel libro “Rimediare Ri-mediare, Franco Angeli). Il confronto, per dialoghi successivi, era sul tema “Scenari, città, comunità in trasformazione: nuove domande, quali risposte?” (Per maggiori dettagli si veda il Comunicato Stampa QUI).
A ciascun dialogo della mattinata (su Luoghi, Cura, Apprendimento) e a ai 6 tavoli del pomeriggio hanno partecipato i rappresentanti di moltissime associazioni che operano in campi diversi: educazione, riutilizzo beni confiscati, teatro sociale, gestione spazi verdi, rilancio aree interne, attività culturali, relazioni sociali, creazione di lavoro, rigenerazione, ecc.
Ai tavoli del pomeriggio la discussione verteva su 3 domande.
“Considerando le buone pratiche che sono state rappresentate:
- Quali condizioni sono necessarie per valorizzare e rendere patrimonio diffuso, stabile e strutturato ciò che da esse emerge?
- Come sviluppare e far crescere i saperi, le capacità, le competenze, le professionalità che esse richiedono?
- Quali alleanze e cooperazioni costruire per facilitare la loro realizzazione e diffusione?”
Ecco in sintesi il mio intervento di risposta al tavolo n. 2 del pomeriggio.
Come è parso evidente dalla discussione di questa mattina, il mondo dell’associazionismo (la società civile auto organizzata) è molto più ricca delle sue forme classiche di rappresentanza. Più ricca nell’analisi, nelle relazioni, nella capacità di rispondere ai bisogni con le buone pratiche. Il sistema classico di rappresentanza (sociale e politico), conosce meno la realtà delle persone e delle comunità, non si relaziona direttamente con loro, usa i bisogni sociali per una propria dialettica interna piuttosto che come problemi da risolvere. È possibile rinnovare i sistemi di rappresentanza tradizionali (partiti e sindacati delle imprese e del lavoro) portando al loro interno la ricchezza espressa e vissuta dalla società civile e dal mondo dell’associazionismo (laico e religioso)? Personalmente ne dubito. Sarebbe necessario e utile per rinnovare il sistema della democrazia rappresentativa (e anche quello della “finta” democrazia diretta) ma non vedo segnali di attenzione da parte di quelle organizzazioni. Quindi, per rispondere alla prima domanda, direi che è necessario prima di tutto diffondere e far conoscere la ricchezza dell’associazionismo in tutte le sue forme, di rafforzare le relazioni tra le diverse esperienze e, in qualche modo, tentare di costruire una rete di “autorappresentanza” delle buone pratiche. Un’autorappresentanza non fine a se stessa bensì in grado di aumentare la diffusione e l’efficacia delle buone pratiche. Personalmente immagino un percorso “vertenziale” fatto di mappatura dei bisogni, scelta condivisa delle priorità su cui intervenire, costruzione di piattaforme propositive e confronto con le istituzioni a partire dal territorio. Nella speranza che, forzando il confronto con la politica e le istituzioni, si possa ri-stabilire una relazione tra attivismo sociale e funzione pubblica in grado di rafforzare la partecipazione e con questo la democrazia. La democrazia digitale, non radicata socialmente, porta facilmente al leaderismo e al sovranismo.
Per far crescere i saperi penso che si debba, come è stato detto questa mattina, partire dalla scuola, intesa come “comunità educante”. Un percorso educativo e formativo per tutti, a partire dai bambini e dagli adolescenti (ovunque siano nati), che non si ferma a una certa età ma continua a mescolare e arricchire esperienze di sapere e saper fare. Un sapere non astratto ma orientato alla comprensione e condivisione della realtà e al suo miglioramento in termini di sostenibilità, (ambientale, sociale, economica) e di riduzione delle disuguaglianze.
Gli interlocutori “naturali” e funzionali delle buone pratiche dovrebbero essere le amministrazioni delle città, le istituzioni di governo a partire da quelle locali. I soggetti che avrebbero il compito, per funzione propria, di registrare i bisogni sociali e corrispondere i servizi adeguati. Specie in questa fase in cui l’invecchiamento e la pandemia hanno trasformato e moltiplicato i bisogni delle persone. E in cui il cambiamento climatico ha accentuato fino all’emergenza i bisogni del territorio. Un tempo, da parte degli Enti Locali la risposta più diffusa a questi ragionamenti sarebbe stata: “avete ragione ma non abbiamo le risorse per intervenire”. Ora il paradosso è che le risorse ci sono e nessuno fino a questo momento ha iniziato a rivedere potenziandolo il sistema del Welfare delle persone e quello della manutenzione, prevenzione dei rischi, valorizzazione del territorio. Purtroppo il sistema istituzionale italiano è disconnesso da molti anni: 20 Lea (livelli essenziali di assistenza) regionali, città metropolitane esistenti solo sulla carta intestata, gli enti di area vasta cancellati con crollo della manutenzione del territorio e delle sue infrastrutture, i piccoli comuni senza risorse tecniche per affrontare i temi importanti, le aree interne abbandonate a loro stesse. Chi decide e garantisce la coerenza tra gli indirizzi e le risorse previste dal PNRR e il loro coerente impiego, ad evitare la spesa a pioggia cui siamo abituati da anni? Chi certifica l’appropriatezza con cui vengono realizzati i progetti finanziati? Anche in questo caso penso, purtroppo, che non sia sufficiente la funzione istituzionale e amministrativa. Anche in questo caso è necessario attivare, a partire dalle comunità, una funzione non solo di controllo passivo ma di sollecitazione attiva e indirizzo dei progetti.