Fra pochi giorni, e precisamente il 15 novembre 2022, secondo il Rapporto Onu che stima le proiezioni demografiche del nostro pianeta, dovremmo raggiungere gli otto miliardi di persone. E mentre nel vecchio Continente riemergono nostalgie sovraniste e le destre vanno al potere, come è avvenuto in Italia, l'America Latina - dove sono concentrate preziose risorse naturali e buona parte della popolazione più povera del pianeta - vive un nuovo risveglio a sinistra.
Dopo una campagna elettorale tossica, estremamente conflittuale, oltre 60 milioni di brasiliani hanno eletto Luiz Inácio Lula da Silva, ex operaio metalmeccanico e leader del Partito dei Lavoratori, nuovo Presidente del Brasile. Per Lula è un ritorno importante (ha già ricoperto questo incarico dal 2003 al 2010), dopo un'odissea giudiziaria piuttosto lunga, che gli è costata 580 giorni di carcere finchè le accuse politiche sono state confutate e la condanna annullata. Quella del 30 ottobre scorso è stata una vittoria sul filo del rasoio che ha messo la parola fine alla presidenza del conservatore Bolsonaro, che ha prodotto una tragedia ambientale e visto quasi 700.000 brasiliani morire di Covid.
Al centro del suo primo discorso c’è stata la promessa di combattere la fame e la povertà che oggi, secondo le stime, colpiscono rispettivamente 33 milioni e 100 milioni di persone nel paese. “Non possiamo accettare che sia normale che in questo paese milioni di uomini, donne e bambini non abbiano abbastanza da mangiare – ha detto il neo Presidente rivolgendosi alla stampa – Siamo il terzo produttore mondiale di cibo e il più grande produttore di proteine animali... abbiamo il dovere di garantire che ogni brasiliano possa fare colazione, pranzo e cena ogni giorno”.
Lula ha ricevuto le congratulazione dai Rappresentanti di Stato di tutto il mondo ma non dal suo sfidante, che ha perso per soli due milioni di voti su 156 milioni di aventi diritto ma già fortemente indebolito dalle dimissioni nello scorso anno del ministro degli esteri e dei vertici militari, oltre che dallo scontro con la magistratura e dalla gestione della pandemia.
Il Brasile ha perso l’11% della sua area forestale tra il 1985 e il 2017. Nel biennio 2019-20, quasi il 98% delle segnalazioni relative a pratiche di deforestazione illegale nell’Amazzonia brasiliana non sono state verificate nè sanzionate. Lo sostiene uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Environmental Research Letters, indagine svolta a cura di un gruppo di ricerca guidato da Marcondes G. Coelho Junior, ricercatore presso l’Instituto de Florestas della Universida de Federal Rural do Rio de Janeiro.
"La presidenza di Jair Bolsonaro è stata caratterizzata da un allentamento delle normative e da tagli al budget delle agenzie ambientali, decisioni che hanno portato a un’impennata dei tassi di distruzione dell’Amazzonia dal suo insediamento nel 2019″, si legge ancora nella ricerca. Stando poi ai dati Inpe, riportati dal sito Rinnovabili.it, il quotidiano sulla sostenibilità ambientale, solo nel primo trimestre del 2022 sono spariti circa 941 chilometri quadrati di foresta Amazzonica, una superficie cinque volte superiore a quella della città di Milano.
L’effetto negativo della presidenza Bolsonaro è indiscutibile ed ha una ricaduta globale ma, una ricostruzione storica del fenomeno, mostra che Bolsonaro è solo l’ultimo esecutore del disastro ambientale in amazzonia, disastro che va avanti da decenni, con responsabilità diverse, anche negli altri paesi che ospitano le foreste.
Una delle punte massime nei tassi di deforestazione è stato raggiunto nel secondo anno del primo governo Lula, per effetto di decisioni prese negli anni precedenti e non tempestivamente revocate. Come mostra l’infografica sottostante, il disboscamento è poi diminuito sotto Lula per arrivare al minimo nei primi anni di governo di Dilma Rousseff, per poi riprendere a crescere fino ai nuovi record attuali. Il problema è che, i governi di tutti gli schieramenti, hanno posto al centro della loro azione la crescita economica del Paese, anche a costo di minare l’equilibrio ambientale mondiale.
In oltre 25 anni sono stati 800.000 i chilometri quadrati di foresta amazzonica scomparsi per fare spazio ad agricoltura e allevamento intensivi, a loro volta destinati a sostenere il consumo di carne nel resto del mondo. Le invasioni territoriali a discapito degli indigeni sono cresciute del 150% e molte sono le specie in via di estinzione, a causa della distruzione degli habitat naturali. Molte grandi aziende non comunicano in modo trasparente l’impatto delle loro attività sulla deforestazione globale, oltre a non adottare misure adeguate a favore della salvaguardia delle foreste. Nel triennio 2016-2018 più di 350 aziende hanno rifiutato di rispondere a domande in merito – tra cui marchi come Dominos, Next, Ferrero Spa e Sports Direct – mentre il 70% di esse non ha fornito informazioni o dettagli sui principali elementi contestati, responsabili (direttamente o indirettamente) della deforestazione amazzonica: ovvero la produzione di legno e olio di palma, la diffusione di allevamenti di bestiame e soia. La deforestazione illegale, inoltre, si traduce successivamente in cluster di allevamento abusivo: sono molte le aree in cui pascolano decine di migliaia di animali che, prima di essere condotti al macello, verrebbero trasportati dagli allevatori in pascoli legali alterandone così l’origine e rendendo la loro carne commercializzabile (Fonte: ISPI).
Le difficoltà per Lula non sono dunque finite. Ora si apre per il Presidente eletto un percorso di governo in salita: il Congresso è come sempre frammentato in una ventina di partiti, ma di orientamento più conservatore rispetto al passato e molti governatori sono legati a Bolsonaro. Tra i primi interventi oltre alle misure per contrastare l’aumento della povertà e della disuguaglianza, ci auguriamo possano esserci quelle per proteggere l’Amazzonia.
Come veniva ricordato, Lula ha già governato tra il 2002 e il 2010 ma il contesto geopolitico attuale è molto meno favorevole di allora. Il Brasile, come il resto dell’America Latina, è in una situazione di perenne dipendenza economica che pone questi Paesi nella dipendenza geopolitica. Ma, come segnala la rivista LImes, ciò che è più importante sotto un profilo geopolitico è la divisione geografica e demografica del voto. Il sud del Brasile, ricco e produttivo, ha votato compatto per Bolsonaro. Il nord-est, più povero e dipendente da sussidi pubblici, per Lula. Una partizione territoriale che si conferma in tutte le elezioni degli ultimi vent’anni.
Inoltre la popolazione evangelica, gli imprenditori, i liberi professionisti, gli agricoltori, le forze di sicurezza hanno votato in massa per Bolsonaro. Professori, giornalisti, intellettuali, disoccupati, popolazione carceraria e abitanti delle favelas hanno votato per Lula. Due volti dello stesso Paese che hanno sempre più difficoltà a convivere pacificamente.
Per il loro bene e per il nostro, quindi, felicidades a Lula.
Per la Redazione - Serena Moriondo