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Foto Class Issues. Art Production In and Out of Precarity exhibition view at Berlinische Galerie Berlino 2022. Photo Benjamin Renter nGbK 3 1068x712L’acuirsi delle differenze socioeconomiche dei Paesi occidentali sta velocizzando la marginalizzazione dei ceti più bassi anche nella produzione culturale, con le dinamiche di esclusione-inclusione a rendere più evidenti le inefficienze del mondo artistico: alcuni talenti non vengono riconosciuti o celebrati anche perché di estrazione modesta o nell'impossibilità di utilizzare gli strumenti del capitalismo. 

L’arte è fatta dai ricchi per i ricchi”, denuncia Norbert Witzgall, co-curatore della mostra Klassenfragen, in corso alla Berlinische Galerie. La mostra verte su cinque principali questioni e domande: il classismo, i mezzi di produzione, le opzioni per promuovere un cambiamento, le follie del mercato dell'arte e la mancata copertura di determinate tematiche.

La mostra inizia con una serie di documenti: alcune richieste di supporto economico inviate per lettera da artisti over 60 sono esposte nel corridoio a pochi metri dal dipinto di una di loro: Elke Philomena Kupfer. Ha dipinto, nel 2022, una donna con una busta di plastica, oggetto di fantasie durante gli anni della Germania Est, ora diventato strumento di consumismo, ma anche simbolo di precarietà e povertà. Il ruolo della produzione culturale dell’ex Germania Est è un tema ricorrente.
I sedici artisti che richiedono supporto non sono famosi. Le loro tematiche sono spesso estromesse dal mondo dell’arte, anche per un discorso d’età: un artista anziano non riconosciuto o riconoscibile è facilmente relegato alla presunta irrilevanza culturale.
La visibilità è nelle mani delle persone con potere. Questo è poi riprodotto anche nel mondo dell’arte. Se non viene da una condizione di privilegio, un artista ha inevitabili difficoltà a carpire il linguaggio usato, le referenze. Ma i problemi non si fermano qui”, spiega Witzgall.
Il curatore e artista aggiunge che i meccanismi di esclusione portano anche a complicazioni psicologiche, dalle insicurezze nei propri mezzi a situazioni più complicate a livello clinico, come la depressione.

La mostra è principalmente un lavoro di curatela, dove artisti che vivono sulla strada coesistono con personaggi riconosciuti dal mercato dell’arte, dove l’archivio dell’istituzione berlinese (Il pittore di Arthur Segal, 1921, è un ottimo esempio) dialoga con i lavori di alcuni conoscenti dei curatori e dei curatori stessi, che si sono messi in gioco in prima persona.

Abbiamo fallito in diversi casi ad affrontare questi problemi nell’organizzazione della mostra. La Berlinische Galerie è un’istituzione molto aperta, ma rimane, come ogni istituzione, un posto d’esclusione. Così anche la mostra. Anche noi curatori non siamo innocenti, non siamo eroi”, chiarisce Witzgall.
Questo punto assume particolare valore perché tradisce le ipocrisie delle persone che partecipano attivamente al mondo dell’arte: pur con le migliori intenzioni, come in questo caso, i favoritismi e gli interessi personali esistono e rimangono. Anche parlare di esclusione implica spesso strumenti di esclusione. Difficile allontanarsi da dinamiche dominanti e dinamiche di dominio.

La sala principale si apre con due pilieri e due barriere normalmente usati nell’equitazione. Si tratta del primo risultato di una ricerca su Google. Anche in questo caso una contraddizione: non è forse il motore di ricerca americano uno strumento che uniforma e livella la cultura?  Come si possono superare dinamiche di mercato in una società capitalistica?
Oltre le barriere per cavalli sono esposti i lavori di diversi artisti di diversi periodi. Su tutti campeggia una bandiera rosa ideata nel 2021 da Vlad Brăteanu: un artista che non riesce a ottenere finanziamenti non è un artista. Il lavoro trae ispirazione da un precedente contributo di Mladen Stilinovi, Anca Benera e Arnold Estefan (un artista che non parla inglese non è un artista).

Tre i video. Il più recente (2022), prodotto in Australia da Liang Luscombe e Itchy IOU, è focalizzato sulla follia e l’assurdità degli artisti e del mercato dell’arte; il secondo, di Verena Brakonier, Jivan Frenster e Greta Grandera (2021), è una sequenza di interviste a persone di cui si vedono solo le mani e di cui si capisce l’estrazione sociale in modo duro ma non patetico; il terzo, della regista Margit Czenki, documenta l’azione. I poveri aiutano i ricchi nel centro di Amburgo nel 1998, quando attivisti e artisti si sono trovati a gioire per la possibilità di pulire gratuitamente le scarpe di pelle dei passanti benestanti, o di lavare i vetri delle Mercedes-Benz o le Porsche che passavano per strada.

Il trend di esclusione di alcuni artisti dal mercato culturale è infatti una costante negli ultimi cento anni, ma in questo momento è un fatto ancora più pericoloso, visti i cambiamenti sociali in atto.
Il mondo dell’arte è diviso. Da una parte, visti i crescenti patrimoni dei super-ricchi e le nuove opportunità lavorative nel mondo digitale, dall'altro, nonostante borse di studio e sistemi di supporto pubblico, il mestiere dell’artista è sempre più complesso, soprattutto nella capitale tedesca. I prezzi degli studi (e degli appartamenti) continuano ad aumentare, lo sfratto è spesso una realtà, l’inflazione si fa sentire.
In questo contesto, che è poi una declinazione specifica di trend generali che accumunano le società europee, in cui la generazione e il genere vanno spesso a limitare le possibilità economiche e lavorative, la mostra alla Berlinische Galerie è un avvertimento. Ancora di più in un mondo dominato da persone dagli ingenti patrimoni senza grandi background artistici e culturali: l’arte diventa spesso un investimento, un modo per apparire intellettualmente progrediti, pur non essendolo. (Fonte: Artribune

Per la Redazione - Serena Moriondo