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Immagine ombre divario generedi Serena Moriondo

"Le linee guida PNRR e PNC sono volte a favorire le pari opportunità di genere e generazionali e l’inclusione delle persone con disabilità nei contratti pubblici finanziati con queste risorse." Un anno fa, riportavamo queste parole commentando l'iniziativa di CGIL, CISL e UIL sul protagonismo delle donne nella ripresa del Paese, organizzata per l'8 marzo. Il contesto era il quadro che raffigurava il Global Gender Gap Index 2022 del World Economic Forum - che misura il raggiungimento degli obiettivi di parità tra uomini e donne - dove il nostro Paese,  nella classifica, è lontano dagli altri maggiori Stati europei posizionandosi al 63° posto su 146 Paesi. A separarci dalla Spagna (17esima), ci sono 46 posizioni, 48 dalla Francia (15esima) e 53 dalla Germania (decima).

L’articolo 46-bis del DL77 e le sue Linee Guida -  che erano oggetto del dibattito - prevedevano che, a decorrere dal 1° gennaio 2022, fosse istituita una certificazione che attestasse il livello di raggiungimento della parità di genere all’interno delle imprese,  per contrastare e ridurre le discriminazioni di genere. La normativa prevedeva che la valutazione si applicasse a uno spettro ampio di attività aziendali, dalla parità salariale alla parità di mansioni e alle opportunità di crescita professionale, dal salario accessorio all’equa rappresentanza delle donne nelle posizioni di vertice. Per le imprese che avessero portato a termine il processo di certificazione, era stato previsto inoltre un duplice beneficio: da un lato, gli incentivi fiscali legati all’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, dall’altro, una premialità nella valutazione dei bandi pubblici.

E il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevedeva che, entro il 2026, sarebbero state circa 800 le aziende italiane che avrebbero portato a compimento il processo di certificazione per la parità di genere attarverso la Uni/PdR 125. Una prassi di certificazione con l’obiettivo di supportare un percorso di cambiamento culturale nelle organizzazioni e nella Società, necessario per raggiungere una più equa parità di genere superando la visione stereotipata dei ruoli, attivando la grande risorsa dei talenti femminili per stimolare la crescita economica e sociale del Paese.

Quel testo, come è noto, mostrava alcuni nodi irrisolti:

  • sapevamo che la quota del 30% sarebbe stata difficilmente attuabile in quanto non avevamo una situazione di partenza dove questo obiettivo potesse essere agevolmente attuato (9,1% tasso disoccupazione femminidile, dic 2022, Istat). Ma sapevamo altrettanto bene che non attuarlo significava non solo rischiare in relazione ai programmi pluriennali di investimento del PNRR ma anche rispetto sia ai bassi livelli occupazionali che riguardano le donne, sia alla qualità del lavoro femminile che non è peggiorata soltanto a causa del part time involontario che è arrivato al 60%, cioè ad un livello triplo rispetto alla situazione europea ma anche alla precarietà e alle difficoltà nella conciliazione dei tempi di vita;
  • in questo sistema erano state previste tutta una serie di deroghe di cui è difficile spiegarsi la razionalità: sapevamo, infatti, che le deroghe previste rischiavano di rendere totalmente inefficace la previsione. In altre parole se si accettava, in partenza, che si potesse mettere in bilanciamento il principio dell’uguaglianza con il principio dell’efficienza e dell’economicità si rischiava di vanificare la misura;
  • un’altra ombra riguardava le premialità: nei criteri di premialità era previsto il caso dell’azienda che nei tre anni precedenti non avesse fatto discriminazioni di genere o fosse in regola con le assunzioni di persone con disabilità. I criteri di premialità erano in sostanza, non aver violato la legge. Non ci vuole un giuslavorista o un esperto di contrattualistica pubblica per capire che era una forzatura;
  • anche nei meccanismi sanzionatori erano state avanzate, a suo tempo, alcune precisazioni: se c’è una violazione delle norme avrebbero dovuto anche essere previsti dei meccanismi per i quali l’azienda venga in qualche modo portata a rispettarle in futuro (e non la sola esclusione dalla gara e solo per le grandi aziende!).

Ciò premesso, l'idea che fosse introdotta la certificazione della parità di genere fu giustamente considerata un passo in avanti dato che, oltretutto, questa normativa si inseriva all’interno di uno straordinario programma di investimento per il nostro Paese, probabilmente senza precedenti. Per questo c'era anche la consapevolezza che era indispensabile trovare un compromesso nel portare avanti un processo di avvicinamento tra le esigenze del sistema produttivo e gli obiettivi di uguaglianza da raggiungere.

Ma nessuno aveva previsto che potessimo addirittura tornare indietro.

E' passato poco meno di un anno, infatti, e alle soglie della nuova Giornata Internazionale delle Donne, Azzurra Rinaldi - docente di Economia Politica dell'Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza - lancia un allarme "Cambia il codice degli appalti. E scompare la certificazione di genere".

Il Governo Meloni ha infatti trasmesso alle Camere il testo del nuovo Codice degli appalti che non contiene alcun riferimento alla certificazione per la parità di genere così come prevista dall’art. 46 bis del Codice delle pari opportunità.

La parità di genere è uno degli obiettivi fissati nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile e l’assenza di discriminazioni di genere è anche uno dei parametri contenuti nei criteri Esg, in quanto indice di progresso ed equità. Ma non solo: oltre ad essere uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, è un fondamentale strumento di progresso sociale ed economico, come è oramai riconosciuto dalle più avanzate teorie economiche internazionali.

E noi, ancora una volta - come ci ricorda Azzurra Rinaldi - rischiamo di perdere di vista l’obiettivo.

La parità di genere è garantita dalla Costituzione della Repubblica italiana nel vasto quadro dei diritti dell’essere umano, riconosciuti dall’articolo 2 come inviolabili, e in quello proclamato all’articolo 3 della pari dignità sociale e dell’uguaglianza di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».