di Serena Moriondo
Vi sono molti modi per definire il "lavoro agile" ovvero il lavoro svolto da un luogo diverso da quello abituale e con l’ausilio della tecnologia, che nell’esperienza italiana ha assunto prima la forma del telelavoro, cui poi si è aggiunto il lavoro agile, Questa estrema diversificazione delle espressioni è data dall’estrema e crescente diversificazione e continua evoluzione delle forme di flessibilità spazio-temporale adottate dalle imprese contemporanee, per cui ad oggi non esiste (e difficilmente potrà essere circoscritta) una definizione "univoca" di lavoro agile (Di Nunzio D., 2021).
Un aspetto però pare essere piuttosto chiaro: il lavoro da remoto non decolla, anzi. In Italia è appena il 14,9% degli occupati che svolge parte dell’attività da remoto (circa 2,5 milioni su poco meno di 19 milioni di dipendenti), ma potrebbe essere quasi il 40%, considerando le sue potenzialità. Pertanto, la quota che effettivamente si traduce in lavoro a distanza è minoritaria, nonostante il boom che si è avuto nel 2020, in piena pandemia, quando si è passati dal 4,8% dell’anno precedente al 13,7%.
È quanto emerge dalle ultime analisi INAPP (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche) presentate nel corso della giornata di studi “Lavoro agile, definizioni ed esperienze di misurazione” che si è tenuta a Roma il 26 gennaio. A tale iniziativa hanno presentato studi e metodologie d'indagine oltre al Presidente dell'Istituto Sebastiano Fadda ed altri esponenti dell'INAPP, Michael Frosch (ILO), Fiorella Crespi (Politecnico di Milano), Alessia Sabbatini (Istat), Daniele Di Nunzio (Fondazione di Vittorio). Hanno discusso i risultati: Leonello Tronti, professore in Economia del Lavoro, Università degli Studi Roma Tre e Patrizia Cinti, docente in Sociologia del lavoro e delle professioni, Pontificia Università Antonianum di Roma. Il suo obiettivo, fare il punto sulle diverse definizioni e misurazioni fin qui adottate, per dar conto del fenomeno in Italia, con l’obiettivo da un lato di contribuire a far luce sui motivi sottesi alle differenze tra le stime fin qui prodotte, e dall’altro di pervenire a una proposta di misurazione che riesca a cogliere il fenomeno nella sua complessità multidimensionale.
Secondo lo studio, la quota del lavoro da remoto varia dal 25% per le professioni intellettuali o esecutive al 2% di quelle non qualificate. Dietro questa distribuzione vi è sicuramente il differente grado di fattibilità del lavoro da remoto nelle diverse professioni, ma anche la differente capacità manageriale di adottare nuovi modelli di organizzazione del lavoro facendo uso delle nuove tecnologie digitali.
Secondo le analisi contenuto nello studio, a svolgere un lavoro telelavorabile sono soprattutto i laureati, i dipendenti delle imprese di grandi dimensioni, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media delle professioni telelavorabili si rilevano tra le donne, i residenti nel Nord Ovest e nel Centro e le persone con diploma.
“Dai dati, dunque, non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese è come se durante la pandemia avessimo vissuto in ‘una grande bolla’ e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro che preveda una combinazione di fasi di lavoro da remoto con fasi di lavoro in presenza”.
Nel 2019 solo il 14,6% degli occupati in Europa (Eu-27) lavorava abitualmente da casa e lo scenario era piuttosto eterogeneo, con i Paesi Bassi in cui tale modalità raggiungeva il 37,2%. Con il dilagare del Covid, alcuni Paesi che già nel 2019 mostravano valori superiori alla media UE hanno intrapreso un trend di crescita nei due anni successivi (Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Danimarca, Francia, Estonia, Malta e Portogallo). L’Italia, che nel 2019 aveva percentuali al di sotto della media europea, con l’emergenza sanitaria ha raddoppiato tali valori, ma nel 2021 il tasso di crescita del ricorso al lavoro agile è decisamente rallentato (4,8% nel 2019, 13,7% nel 2020, 14,9% nel 2021 secondo i dati EU-LFS, con valori ancora più bassi tra i dipendenti: dall’1,7% del 2019 al 12,1 del 2020 e al 13,8 del 2021).
La percezione di alcuni vantaggi e svantaggi del telelavoro fa emergere inoltre una differenza di genere con gli uomini, che apprezzano in particolare la maggior autonomia, e le donne, che mostrano invece maggiore preoccupazione riguardo alle prospettive di carriera (50,9%), ai diritti e alle tutele sindacali (52,8%) e al maggiore controllo da parte del datore di lavoro (53,3%).
In quanto ai settori privati, al di là del settore agricolo che per ragioni ogettive non utilizza lo smartworking, per le imprese fino a 5 dipendenti, l'84% dei lavoratori e delle lavoratrici svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma al crescere della dimensione dell’azienda si riduce tale quota (il 56,4% fra quelle medie, 50-249 addetti e 34,2% fra le realtà con oltre 250 addetti). Nel 2021 solo il 13,3% delle imprese intervistate ha utilizzato tale modalità.
Secondo l'Inchiesta nazionale sul lavoro e nello specifico, sulle aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori, lanciata dalla Cgil nel 2022 - presentata da Daniele Di Nunzio della Fondazione di Vittorio - emerge che - seppur in presenza di diverse difficoltà come il fatto che lo smartworking rende più ambigua l’assegnazione dei compiti e dei carichi di lavoro e rende più difficile ogni forma di collaborazione con colleghi e superiori, il 35,9% degli uomini e il 38,5% delle donne vorrebbe lavorare da casa. Sul piano sindacale, per prestazioni di lavoro e assetti organizzativi, la ricerca evidenzia la necessità di analisi più approfondite degli accordi su smartworking, tanto più che al di là dei settori pubblici nei quali la regolamentazione del lavoro agile è piuttosto alta (esclusa l'Università e la Ricerca), vi sono settori privati nei quali lo è molto meno con una forte diversificazione degli ambiti di regolamentazione (tempi di lavoro e modalità organizzativepresentano alte percentuali mentre salute e sicurezza, profili professionali di chi può accedere, formazione, ferie, malattia, diritti di rappresentanza sindacale , obiettivi di lavoro molto più basse). Tanto che il lavoro agile comporta una generale ridefinizione dei perimetri di tutte le relazioni sociali, inclusa l’azione sindacale e, in generale, di rafforzare le tutele.
Altri aspetti interessanti, illustrati da Alessia Sabbatini dell'Istat in occasione del seminario INAPP, riguardano:
- gli effetti sull'organizzazione del lavoro in termini di cambiamento dell paradigma organizzativo basato sul controllo diretto, il lavoro riorganizzato per obiettivi, le convenienze a proseguire ricorso a lavoro da remoto;
- gli effetti sulla lavoratrici e sul lavoratore: flessibilità e organizzazione dei tempi di vita e lavoro, riduzione tempi di spostamento casa-lavoro, socializzazione con colleghi, forme di disagio (emarginazione lavorativa, senso di isolamento rispetto al team di lavoro, senso di estraneità, ecc.), fatica dovuta alla sovrapposizione degli ambiti (cura e lavoro), effetti sulla carriera: danni di carriera dovuti al confinamento a casa
- ma anche effetti e progettazione urbanistici (cambiamento geografia urbana di luoghi e orari / spostamenti; trasferimenti città/campagna, lavoro da luogo di origine (south working, lavoratori meridionali impiegati al nord); sistemi e elementi di attrazione: smart city, luoghi di coworking, galassie di servizi e esercizi commerciali (Città dei 15 minuti, a misura umana).
Secondo il report “Advancing through headwinds: where are organizations investing?”, curato dal Capgemini Research Institute e frutto dell’analisi di 2.000 interviste condotte a fine 2022 in 15 Paesi (Italia inclusa), il 65% dei manager di grandi organizzazioni prevede di investire e implementare opzioni di lavoro ibride per i propri dipendenti. Inoltre, per quei ruoli che richiedono meno supervisione e lavoro di squadra, il 61% degli intervistati pensa di poter avviare rapporti di lavoro totalmente da remoto. Il caso di Sky Italia: l'azienda, a fine 2022, ha sottoscritto insieme alle rappresentanze sindacali un accordo che estende il lavoro ibrido a tutti i dipendenti – a tempo indeterminato, determinato o di somministrazione – per più del 50% delle giornate lavorative. Tutto ciò ha comportato anche una drastica riduzione degli uffici e delle postazioni individuali. Oggi ce ne sono circa 30, a disposizione dell’Amministratore Delegato e poche altre figure. Tutto il resto si basa su una logica di "sharing”.
Forse è giunto il momento che, come per le abitazioni e le infrastrutture, si inizi a progettare luoghi di lavoro differenti, più sostenibili per tutti, non solo sul piano della convenienza economica delle imprese.
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