di Serena Moriondo
Nel 1912, entrò in vigore per la prima volta nel regno d'Italia un regolamento che fissava ad otto le ore di lavoro giornaliere. Tale provvedimento fu una conquista delle mondine, le donne che fra Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna lavoravano nelle risaie per 11-13 ore al giorno, dall’alba al tramonto con l’acqua fino alle ginocchia a fare la “monda”, a piedi nudi e con la schiena curva per togliere le erbacce infestanti e trapiantare le piantine di riso. Una conquista che diventò patrimonio del mondo del lavoro.
Nel 2016, dando rilievo infatti ai numerosi cambiamenti economico-sociali, a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio - il crollo demografico, la crescita della speranza di vita, il riconoscimento di diversi tipi di famiglia, l’aumento della disoccupazione ma anche del più recente fenomeno del "quite quitting" (tradotto "abbandono silenzioso") ovvero "Lavorare il necessario" - il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione, denominata “Creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all'equilibrio tra vita privata e vita professionale”, richiedendo agli Stati membri di provvedere all’elaborazione di politiche con particolare riferimento alla materia giuslavoristica. E dopo un incremento selvaggio delle più svariate misure di welfare aziendale, si è assistito, anche a causa della pandemia, ad una grande implementazione delle prestazioni rese in modalità smart-working.
Nel 2023, in una recente intervista al quotidiano “ La Stampa ”, il Segretario Generale della Cgil, Maurizio Landini ha annunciato che, al Congresso di metà marzo, verrà lanciata la proposta della settimana lavorativa di quattro giorni, tra le proposte probabilmente la più desiderata, sicuramente la più discussa, già sperimentata con successo in altri Paesi, tra cui il Regno Unito. Tra gli Stati che hanno per primi sperimentato la settimana corta troviamo la Nuova Zelanda e l’Islanda, ma anche la Scozia e la Spagna a cui si sono aggiunte singole realtà aziendali nei vari Paesi nel mondo.
E proprio nelle scorse settimane i ricercatori dell’Università di Cambridge hanno reso pubblici i risultati del più grande esperimento al mondo sui quattro giorni di lavoro ovvero la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, dimostrando che il 92% delle aziende coinvolte non vuole più tornare indietro. Risultato di questa sperimentazione, infatti, sono meno stress, più tempo libero e maggiore produttività.
Si chiama “The results are in: the Uk’s four-day week pilot” lo studio sulla settimana lavorativa corta prodotto dall’Università di Cambridge in collaborazione con il Boston College e il think tank Autonomy: hanno preso parte alla ricerca, condotta da giugno a dicembre 2022 e pubblicata lo scorso 20 febbraio, 61 aziende del Regno Unito, per circa 2.900 dipendenti rappresentanti di vari settori produttivi.
I risultati suggeriscono che una settimana di quattro giorni (senza alcuna riduzione dei salari) diminuisce significativamente lo stress e le malattie nella forza lavoro. Circa il 71% dei dipendenti ha infatti dichiarato livelli inferiori di "esaurimento" e il 39% di essere “meno stressato” rispetto all'inizio del processo. I ricercatori hanno riscontrato inoltre una riduzione del 65% dei giorni di malattia e un calo del 57% del numero di dipendenti che hanno abbandonato le aziende (rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente).
Ai dipendenti è stato anche chiesto come stessero impiegando la giornata a disposizione, e la risposta più diffusa è stata “sto gestendo la mia vita”. Attività come la spesa e le faccende domestiche, prima relegate al sabato e alla domenica, sono state spostate al giorno libero, permettendo così alle persone di prendersi un’autentica pausa durante il weekend. Per i genitori di bambini piccoli, un giorno libero infrasettimanale ha significato risparmiare sulle spese per l’assistenza all’infanzia. Molti hanno riferito di avere più tempo da dedicare agli hobby: dallo sport alla cucina, dalla musica al volontariato. Alcuni hanno sviluppato nuovi interessi, mentre altri hanno ottenuto nuove qualifiche professionali. I ricavi delle imprese, si legge nello studio, sono cambiati poco durante il periodo di prova, e anzi sono aumentati marginalmente dell’1,4% (in media) per le 23 organizzazioni in grado di fornire dati. Il 92% delle aziende (56 su 61) che ha preso parte al programma pilota ha dichiarato di voler continuare con la settimana lavorativa corta, e 18 di queste hanno confermato il cambiamento come permanente.
C'è però chi sostiene, come Riccardo Maggiolo, autore sui temi del lavoro e dell'innovazione sociale, in un articolo apparso il 1° marzo su HUFFPOST che credere di risolvere il problema utilizzando strumenti come il salario minimo, lo smart-working o la settimana corta è illusorio e va oltre: "l lavoro non va tanto o solo ridotto, va ripensato".
Scrive Maggiolo è facile "capire come un’azienda di consulenza troverebbe molto più semplice ridurre gli orari di lavoro dei dipendenti rispetto a una di logistica, che deve invece fornire un servizio costante. Senza contare poi che in certi settori il tempo-lavoro è molto più legato all’output, e quindi meno comprimibile – un operaio che sta più a lungo in catena produce più pezzi, mentre non necessariamente un grafico che sta più tempo al computer produce più file. Ci sono, insomma, certi tipi di settori che possono regolare con molta più facilità il loro processo produttivo, mentre molti altri non hanno tutta questa flessibilità. Questi ultimi, se venisse imposta una riduzione di orario, vedrebbero quindi i loro costi salire di molto, e dovrebbero compensare magari con processi interni ancora più stressanti e alienanti. La settimana corta rischia quindi di allargare una frattura che già esiste tra il terziario – e in particolare quello avanzato – e il settore industriale o quello agricolo, per non parlare di quello pubblico. Già oggi, infatti, ci troviamo nella paradossale situazione in cui si parla ossessivamente di futuro del lavoro legato al digitale, alle nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale o all’industria 4.0, mentre scuole, ospedali, tribunali soffrono di mancanze croniche di personale."
Ma i problemi alla lunga potrebbero riguardare anche i lavori d’ufficio. Uno dei risultati dell’esperimento inglese è stato proprio una forte diminuzione delle dimissioni nelle aziende coinvolte (ben -57%), ma è abbastanza facile capire che lasciare un posto di lavoro che ti impegna quattro giorni a settimana per un altro che te ne richiede cinque non ha generalmente gran senso. Per questo, si potrebbe guardare anche l’altro lato della medaglia: la diminuzione delle ore lavorative potrebbe convincere le persone a chiudere un occhio su altre disfunzionalità del proprio lavoro. Le imprese coinvolte nell’esperimento, infatti, hanno tutte cercato di ottenere gli stessi risultati precedenti con un minor tempo-lavoro. Questo, secondo lo studio, è stato possibile tagliando riunioni inutili, introducendo nuovi standard di comportamento nella comunicazione interna, riorganizzando i propri processi. Tuttavia, se lavorare in maniera più organizzata e intensa sicuramente almeno inizialmente aumenta la produttività e la soddisfazione, nel lungo periodo può essere fonte di stress e conflitti. E questo vale ancora di più in settori diversi dal terziario avanzato. Lavorare più intensamente in fabbrica, per esempio, può portare a infortuni più frequenti, mentre farlo in ospedale può provocare errori medici gravi."
Il lavoro, viene fatto notare, "è un fenomeno anzitutto umano e sociale, e solo poi economico e produttivo. Ciò vuol dire che dinamiche di potere e interazione non sono eludibili. Già in questa sperimentazione diversi partecipanti hanno fatto notare come il cambio di orario ha permesso a tantissimi di trovare un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, ma allo stesso tempo in ufficio si viveva in maniera più distaccata e impersonale, con meno occasioni di contatto e confronto. E questo in soli sei mesi! Pensare al lavoro come una pena da sbrigare in meno tempo possibile per poi dedicarsi a cose piacevoli nel tempo libero è un approccio che non solo rende ancora più detestabile il tempo passato al lavoro, ma finisce anche per rendere la vita nel suo insieme più frustrante e insoddisfacente. Quello che in definitiva questi esperimenti sulla settimana corta sembrano provare è non tanto che lavorare meno vuol dire lavorare meglio, ma che molto lavoro oggi sta perdendo senso e utilità."
Insomma, il lavoro non va tanto o solo ridotto: va ripensato. Che il modello economico e sociale centrato sul perseguimento della massima produzione e della massima occupazione debba essere rivisto è evidente, tuttavia, pensare di risolvere il problema utilizzando strumenti come il salario minimo, lo smart-working o la settimana corta – che pure possono avere un ruolo – è illusorio o perlomeno non sufficiente. Oltre a come lavoriamo dovremo pensare a perché lavoriamo. "Questione, questa, assai più complessa e che deve essere affrontata anzitutto con la cultura, e quindi in un processo collettivo, e solo poi con le leggi in un processo normativo." Le basi su cui si sono sviluppate nei decenni la società e l’economia sono mutate. Non sappiamo più di cosa parliamo quando parliamo di lavoro, e forse nemmeno di valore del lavoro.
Non a caso, Karl Marx nell'Ottocento ha scritto che il rapporto attivo e mutevole che l'essere umano stabilisce con la natura e con gli altri esseri umani dà luogo a forme storicamente determinate di lavoro e produzione – cioè a un insieme di rapporti economici e sociali – che rappresentano le vere matrici della personalità umana. L’insieme di questi rapporti costruisce la struttura della società, sulla quale si eleva una sovrastruttura composta dalle istituzioni giuridiche e politiche, nonché dalle convinzioni morali, religiose e filosofiche. Ed è la prima che determina la seconda, non viceversa. "Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere – affermava Marx – ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza". Toccherà dunque capire cosa è rimasto di questa coscienza per comprendere come si trasformerà, in futuro, anche il lavoro.
* Charlot (Charlie Chaplin) in una scena del film "Modern Times" (Tempi moderni) del 1936