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Foto Sateriale recentedi Gaetano Sateriale

Ha fatto bene Maurizio Landini a invitare la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni al Congresso della Cgil. Ha fatto bene lei ad andare nella casa dell’unica organizzazione di massa con identità di sinistra che ci sia in questo Paese. Un riconoscimento del ruolo del sindacato, oltre che una prova di coerenza istituzionale e di coraggio politico. Come non hanno saputo o voluto fare i recenti Governi (anche di centro sinistra). Si è parlato di “gelo” della platea congressuale della Cgil nei confronti della Meloni. Chi si ricorda i fischi con cui fu accolto Enrico Berlinguer al Congresso del Psi del 1984,  sa che il gelo della platea sindacale dell’altro giorno è stato almeno rispettoso dei ruoli di ciascuno. E anche delle distanze che ci sono tra le rispettive scelte politiche, ovviamente.

La Presidente Meloni è stata esplicita e franca: non poteva certo venire a raccontare cose differenti da quelle decise nel Consiglio dei Ministri. Il Segretario Generale Landini ha fatto altrettanto, rispondendo punto per punto e rilanciando le proposte della Cgil. Ma un impegno al confronto di “merito”, come si dice, è stato più volte dichiarato da entrambe le parti. Vedremo se questo confronto porterà a risultati concreti che vadano oltre le buone intenzioni. Poi, se il Sindacato italiano (unito da comuni intenti, se non unitario) tornerà ad avere un ruolo di interlocutore non occasionale e non solo formale delle politiche del Governo sarà merito di quel che è accaduto a Rimini.

FOTO meloni cgil palco foto governo 696x464Nell’intervento della Presidente Meloni ci sono molti spunti condivisibili e anche alcuni indirizzi interessanti che potrebbero essere ripresi nel confronto che si aprirà tra Governo e parti sociali. Io vorrei qui segnalare solo due questioni: due distanze, se vogliamo, che a me paiono larghe e prima culturali che non politiche, tra il nostro modo di vedere le cose e quello della Presidente Meloni.

La prima è di carattere costituzional-istituzionale. Il presidente del Consiglio (il capo del Governo per essere più schietti) non rappresenta tutti gli italiani come spesso la Meloni dice. Tantomeno rappresenta la “Nazione” che non si sa bene cosa sia. Non la voglio far lunga ma qui c’è un fraintendimento vero e proprio e basta leggere la Costituzione per renderlo evidente (art. 92, 93, 94, 95). Il Presidente del Consiglio, in quanto capo dell’esecutivo, nominato dal Presidente della Repubblica, “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei Ministri”. Insomma, diremmo noi, rappresenta le volontà politiche di governo di una maggioranza parlamentare, non altro. A riprova di ciò basta ascoltare quello che tutti i giorni i Ministri dichiarano: “Abbiamo preso il tal provvedimento per corrispondere agli impegni assunti in campagna elettorale”. E se non fosse così (che viviamo in una Repubblica parlamentare) perché il centro destra dovrebbe sentire il bisogno di una riforma presidenziale della Costituzione?            

Quindi, non confondiamo: la Presidente del Consiglio non rappresenta tutti gli italiani ma le importanti funzioni “esecutive” di governo espresse da una maggioranza parlamentare. Insomma, il capo del governo non è il capo dello Stato e non è il “sindaco” (tantomeno l’”avvocato”) di tutti gli italiani, come qualcuno diceva. La Presidente Meloni può dire che vuole tener conto del benessere di tutti gli italiani, questo sì, ma non di rappresentarli istituzionalmente tutti. Non è un lapsus da poco…

Quanto poi al concetto di “Nazione”, qui siamo nell’equivoco. È senz’altro vero che il termine compare nella Costituzione (3 volte) ma sembra voler significare “il Paese” o addirittura “il territorio”. Se invece per “Nazione” si intende “l’insieme delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza” (cfr. Enciclopedia Treccani), il termine “Nazione” rappresenta qualcosa di più piccolo e più vecchio del concetto di Paese, di Repubblica, e persino di comunità dei cittadini. Non è certo un caso se si dice (in Europa) “i partiti nazionalisti”, per indicare i partiti politici di destra: quelli che distinguono i cittadini in ungheresi e non ungheresi, italiani e non italiani, ecc. E qui il lapsus della Meloni è un po’ più grave perché, a mio parere, non è un lapsus, è un tentativo strisciante di cambiare la cultura nazionale. “La nascita statutaria della nostra Nazione” il 17 marzo 1861, di cui ha parlato la Presidente Meloni, non c’azzecca nulla con la Repubblica Italiana in cui viviamo dal 2 giugno del 1946: è quest’ultima la data che si festeggia (assieme al 25 aprile), non la proclamazione del Regno d’Italia del 17 marzo (come vorrebbe La Russa). Qui sembra esserci persino un problema di DNA differente oltre che di culture differenti.

Foto Landini al XIX Congresso CgilVeniamo ora alle distanze (tra noi e la Presidente) di cultura e di politica economica. La Presidente Meloni ha detto nel suo intervento al Congresso (molto netto e preciso) che bisogna “puntare tutto sulla crescita economica”, che “la crescita la creano le aziende e i loro lavoratori” e non lo Stato al quale “compete di stabilire le regole giuste e redistribuire la ricchezza che gli compete”. E che se creiamo ricchezza quella “inevitabilmente si riverbererà su tutti”. Anche qui temo che ci separino dal punto di vista della Presidente del Consiglio una grande distanza e studi differenti. Certo che la ricchezza la generano le imprese e i loro lavoratori, ma anche gli investimenti e i servizi pubblici e che tra investimenti pubblici (sui servizi e sul territorio) e spesa corrente di aiuto quotidiano alle imprese c’è una grande differenza. È vero che la disoccupazione specie giovanile e femminile è troppo alta e che i salari in Italia sono fermi da tempo e troppo bassi. Ma se è così, è sufficiente affidare alle libere dinamiche di un mercato sempre più finanziario che produttivo di beni e servizi (alla competizione nazionale e sempre più “multinazionale” tra le imprese) la soluzione del problema? Senza salari minimi per contratto o per legge si diffondono i sotto-salari, l’abbiamo visto negli ultimi decenni. Ed è almeno dal 1929 che sul rapporto tra Stato e mercato si confrontano due scuole distinte e contrapposte. Chi si affida al mercato sempre in grado di generare sia il livello di “piena occupazione” che di “equa retribuzione” e “redistribuzione automatica” della ricchezza e chi pensa che senza un intervento (non solo regolatorio) dello Stato, il libero mercato crea da un lato ricchezza per pochi, dall’altro diseguaglianze, impoverimento, disoccupazione per molti. Noi (mi piacerebbe dire, la sinistra) apparteniamo a questa seconda scuola e cultura, non alla prima. E anche Papa Francesco, quando dice “Che una redistribuzione automatica della ricchezza non si è mai vista negli ultimi 300 anni” ci ammonisce che senza lo Stato soggetto attivo di regolazione e sviluppo non si migliora il benessere delle persone.  

Insomma, per un necessario accordo politico sindacale che metta insieme crescita del benessere, riduzione delle diseguaglianze, qualità del lavoro, diritti civili, giustizia fiscale, estensione del Welfare, c’è ancora tanta strada da fare.