di Gaetano Sateriale
Se, come dicono molti osservatori economici internazionali (e il Presidente Draghi), stiamo attraversando la più grave crisi economica dal dopoguerra, significa che non bastano più le misure tampone adottate finora per uscirne (i ristori, la Cig Covid, il blocco dei licenziamenti). Era necessario impiegarle, vanno prorogate fino a quando sarà possibile, ma non sono la cura della malattia: tamponano i sintomi, non eliminano le cause. Come nel dopoguerra, per costruire la ripresa bisogna avviare da subito politiche economiche reali, espansive e propulsive, in grado di creare nuove imprese e nuovo lavoro. Perché la pandemia ha obbligato tutti a capire quello che stava succedendo già da tempo: che sono cambiate le preferenze dei consumi perché sono cambiati i bisogni delle persone. E che la trascuratezza con cui abbiamo trattato il territorio se non contrastata porta ogni anno al moltiplicarsi delle emergenze (metereologiche, climatiche, ambientali, sismiche, ecc). Se stanno cambiando i mercati (nazionali, europei, globali) significa che molte imprese dovranno riconvertirsi in fretta e che molte chiuderanno per l’impossibilità di farlo. E questo moltiplicherà la disoccupazione. Per dirla in altri termini, il sindacato fa bene a difendere il lavoro che c’è, ma deve contribuire a crearne di nuovo. Verrebbe da aggiungere: bisogna agire come fecero i nostri dirigenti del dopoguerra dando vita a un Piano del Lavoro che occupi i giovani che altrimenti saranno costretti ad emigrare e impieghi le competenze delle donne, che non possono essere relegate al ruolo di supplenza, in casa, dei servizi pubblici mancanti. L’edilizia è un esempio di questo cambio di domanda e della necessità di creare nuovi mercati. Se l’esigenza è un abitare più “sociale”, più adatto agli anziani, più verde e sostenibile, il periodo dei grandi condomini (senza infrastrutture e servizi) che allargano ogni anno le periferie delle città è finito. Le imprese dovranno convertirsi e le filiere che conosciamo, fatte di appalti e subappalti, fino alle imprese individuali sono destinate a saltare. Questo vale ormai in tutti i settori. Basti pensare al commercio di prossimità che è rinato (negli ultimi anni) a svantaggio dei grandi centri commerciali.
Ma cosa significa politiche economiche reali ed espansive? Per essere schematici si potrebbe dire che servono prima di tutto indirizzi pubblici che dicano in quali settori si intende investire per lo sviluppo del Paese. Gli indirizzi pubblici non sono annunci cui non segue nulla. Sono scelte programmatiche pluriennali di spesa che se esplicite e condivise sono in grado di ricreare quelle aspettative di ritorno economico che sbloccano gli investimenti degli operatori privati. Se lo Stato inizia a investire può portare a un significativo ritorno economico anche per i privati e muovere i loro investimenti (fermi da troppi anni in Italia). Insomma è necessario passare dalla politica dell’assistenza e della sopravvivenza alla politica della rigenerazione di un’economia che sia più sostenibile (ambientalmente, socialmente, economicamente) per le imprese, per il lavoro, per il Paese.
Parlare di clima, di green deal, di transizione energetica o ambientale, oppure invocare una nuova politica industriale (come facciamo noi del sindacato) è importante, ma si tratta di una premessa: una sorta di dichiarazione di principio e di metodo. La nuova politica economica deve saper trasformare quel metodo e quei principi in scelte programmatiche pluriennali e in progetti da realizzare. Per riuscire a farlo, a mio parere, bisogna rovesciare la nostra logica abituale, o meglio mescolarla: le priorità dei bisogni delle persone e del territorio non si possono decidere a Roma, uguali per tutti, gli indirizzi per lo sviluppo del Paese e gli investimenti pubblici non partiranno dai territori. I fondi europei non possono essere distribuiti ovunque a prescindere (la cabina di regia deve essere una e una sola, nazionale), i progetti non si avvieranno mai “per regio decreto” se gli enti di governo territoriale non li assumono come loro priorità. E anche a livello di governo del territorio, le città di media dimensione hanno le conoscenze tecniche per elaborare progetti coerenti, i piccoli paesi hanno bisogno di un ente di area vasta o della Regione per raggiungere la dimensione più adatta ai loro progetti. Le Regioni hanno bisogno di coordinare fra loro i progetti che riguardano aree più ampie (ad esempio la manutenzione degli Appennini e degli alvei dei fiumi).
È mescolando logica deduttiva e induttiva (lavorare dall’alto e dal basso) che si può avviare una nuova ed efficace politica economica in grado, con gli investimenti pubblici, di stimolare non occasionalmente quelli privati per creare imprese e lavoro. Dal basso si mappano i bisogni prioritari (necessariamente differenti territorio per territorio e settore per settore), dall’alto si definiscono le procedure per realizzare progetti che rispondano a quei bisogni. Anche la ribadita richiesta europea che l’Italia avvii in questa occasione le sempre rinviate riforme strutturali (a partire da quella della Pubblica Amministrazione e della Giustizia civile) può essere affrontata in questa logica: non disegni astratti di riforma ma procedure (anche nuove e sperimentali) che aiutino la realizzazione delle politiche di sviluppo economico e sociale sostenibile cui facevamo cenno.
C’è poi un problema di ricostruire una governance coerente che consenta a Regioni, Città Metropolitane, Comuni di agire non in contrapposizione fra loro, come troppo spesso abbiamo visto in questi mesi di crisi sanitaria, ma secondo un percorso partecipato e condiviso. Se le politiche economiche necessarie alla ripresa sono di questa portata, è giusto chiedersi che contributo può dare il sindacato. Io credo che sia necessario anche per noi intervenire a diversi livelli. In ambito nazionale, per convincere e condividere con le organizzazioni delle imprese la necessità di andare oltre l’assistenza. Un Patto per l’Italia che si ponga l’obiettivo, comune, della creazione di nuove imprese e nuovo lavoro. E un intervento locale diffuso, nel territorio (“fra la gente in carne e ossa”) per individuare i nuovi bisogni del lavoro e dei cittadini da un lato, per condividere e realizzare i progetti necessari a innovare il Paese in una logica di sostenibilità, dall’altro.
Un paio d’anni fa questi propositi sarebbero apparsi utopistici. Ora, di fronte alle consistenti risorse messe a disposizione dall’Unione Europea, sarebbe da irresponsabili non praticarli.