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di Serena Moriondo foto grattacieli zach miles

In periodici e quotidiani sono presenti, ogni giorno, decine di classifiche: le città più grandi, più popolose, più creative, più smart e puntualmente in cima alla classifica compaiono città che sono delle metropoli  (Shanghai, NewYork, Tokyo, Londra, Parigi o che aspirano ad esserlo, come Milano).

In comune hanno, soprattutto, un numero consistente di abitanti, un PIL a due cifre e, magari, la sede delle Borse dove si effettuano le transizioni finanziarie, dove a contare sono gli indici, il mercato azionario, le capitalizzazioni che riflettono l’economia mondiale, per cui, in linea teorica, un miglioramento dell’economia equivale ad un incremento del valore dei titoli, per chi li possiede però, cioè una esigua minoranza (secondo uno studio realizzato da Assogestioni e pubblicato a settembre 2020, nel 2019, cioè prima della pandemia, in Italia 7 milioni di italiani, circa il 12% della popolazione totale, ha fatto investimenti in borsa ma la ricchezza rimane concentrata nelle mani del 10% degli investitori, i quali detengono quasi la metà del patrimonio).FOTO CAOS TRAFFICO 1

In sostanza è opinione pubblica diffusa utilizzare il termine città per definire una località urbana molto popolosa, che domina in campo economico, tecnologico, politico, culturale. Ma al di là dei criteri gerarchico-dimensionali o di tipo funzionale, la città, per esistere, ha davvero necessità di aspirare a diventare una metropoli, cioè la madre di tutte le città (dal greco antico μήτηρ = madre e πόλις = città)?

Foto Città inquinate 2Io penso di no, al contrario, credo che, come tutte le città, le metropoli si trovino di fronte a un bivio: continuare a credere di essere la soluzione per i grandi problemi del mondo o, viceversa, essere uno dei principali. Soprattutto ora, che la pandemia - rallentando molto la nostra vita sociale ed economica - ha accelerato alcune criticità (inquinamento, clima, sfruttamento del suolo, mobilità, energia, rifiuti, ecc.), ponendoci di fornte a delle vere e proprie sfide che richiedono, necessariamente, di essere affrontate. Forse, la più grande di tutte, è quella di consolidare Istituzioni che costruiscano un quadro di norme e di investimenti intelligenti, sostenibili, equi volti a stimolare, premiare, realizzare le scelte promotrici del bene comune.

David Harvey, nel 2013, nel suo libro “Rebel Cities” propone un radicale ripensamento delle categorie descrittive del diritto alla città rilanciando il concetto di beni comuni che privilegia l’interesse comune al profitto individuale. Al contrario, la città (a partire dalle grandi metropoli) tende oggi a valere ciò che rende: l’intero suo spazio (verticale e orizzontale) è perennemente in vendita e le parti migliori sono sempre più riservate alle classi agiate della società.

Vittorio Gregotti, architetto piemontese di inizio Novecento, professore di Composizione architettonica alla facoltà di Architettura dell’IUAV, già docente all’Università di Milano e Palermo, e visiting porfessor alle Università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Berkeley, Losanna e Harvard, nel 2015 ha scritto un interessante articolo sul Corriere della Sera, dal titolo "La città vive di cittadinanza".FOTO La favela di Paraisópolis

Egli scriveva “Nei nostri anni di globalismo (lo sappiamo) la città si esprime soprattutto nello sviluppo apparentemente illimitato delle 'postmetropoli', sia nelle grandi concentrazioni asiatiche e sudamericane che in quelle, specie africane, che ne assumono la scala per mezzo degli sconfinati accampamenti autocostruiti delle loro poverissime periferie. L'attenzione nei confronti della città media (non solo europea) si è enormemente affievolita, in parte anche perché molte di esse imitano in modo provinciale le figure delle postmetropoli, in parte perché molte non hanno trovato (nonostante, per alcune le loro gloriose storie) una sufficiente specificità o un peso economico adeguato. 

Tuttavia il problema delle 'città medie', ed anche piccole, è costitutivo, almeno in Europa, della struttura del territorio, ne articola il servizio con le (relativamente) brevi distanze reciproche. Tuttavia in queste realtà anche la struttura, le architetture e le loro modificazioni ed i nuovi principi insediativi sono incerti, estranei e sovente rovinosi. Questo non significa un nuovo come ritorno ad un passato neoeclettico e stilistico, ma la ricerca di un inizio capace di muoversi dialetticamente rispetto ad esso e quindi di opporre alle bizzarrie provvisorie dell'architettura nelle città l'interrogativo di quale sia il loro rapporto con quella parte di cittadinanza ancora preoccupata del valore civile della città e del suo disegno.

In questi anni proprio la relazione tra spazio urbano e cittadinanza si è perduta, per questo la denuncia pubblica di Gregotti ci può aiutare a riflettere su come riconvertire in futuro le città senza rincorrere il modello delle megalopoli e tenendo a mente che: “la finalità primaria del governo della città e del territorio si è posta al servizio del capitale finanziario globale ed ha fatto dell'architettura uno strumento 'di visibilità dei propri principi', sovente assai lontani da ciò che può fondare, gestire e rappresentare l'interesse di una cittadinanza civile”.