Tra il 19 e il 25 aprile 2021 si terrà la Fashion Revolution Week, quest’anno l’evento mette in connessione i diritti umani con i diritti dell’ambiente. Fashion Revolution, il più grande movimento esistente di attivismo nella moda, sostiene che lo sfruttamento umano e il degrado dell’ecosistema che, oggi, vediamo intorno a noi sono “il prodotto di secoli di colonialismo e sfruttamento globalizzato, derivanti da una visione del mondo in cui la prosperità umana e ambientale sono visti come isolati e scollegati gli uni dagli altri”.
Siamo chiamati ad affrontare sfide essenziali per il futuro e un contributo importante lo possono dare anche i cittadini con una maggiore consapevolezza, prendendo in considerazione, ad esempio, nelle scelte di consumo anche la tutela dell’ambiente in cui noi tutti viviamo.
Il sondaggio "Sustainable Fashion Survey", curato da Ipsos Mori per conto di Changing Markets Foundation e Clean Clothes Campaign, realizzato nel 2018 ( 7.701 persone di 7 differenti paesi: Gran Bretagna, USA, Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna) che ha indagato su quale sia la consapevolezza dei consumatori sulla relazione tra moda e inquinamento ambientale e come questa possa influenzare le scelte di consumo ha dato i seguenti risultati:
- il 79% degli intervistati ritiene importante sapere se questo comparto industriale abbia adottato misure per ridurre l'inquinamento ambientale derivante dalla catena di produzione e considera altresì utile che i brands della moda forniscano informazioni ai consumatori sui loro impegni per tutelare l'ambiente (su questo aspetto gli Italiani, insieme agli Spagnoli, si mostrano molto sensibili, in generale, le donne più degli uomini;
- il 56% si mostra deciso nell'affermare che non comprerebbe da un brand che inquina, a questo proposito i più convinti risultano i consumatori francesi seguiti da quelli italiani e spagnoli;
- il 38% ha affermato di avere optato per l'acquisto di abiti prodotti con materiali sostenibili;
- solo il 17% degli intervistati si ritiene informato sugli impatti ambientali e sociali prodotti dal mondo della moda.
Difficile credere, quindi, che si possa manifestare una forte sensibilizzazione verso i prodotti di abbigliamento con un minor impatto ambientale e sociale ed esserne conseguenti negli acquisti se si ha una scarsa consapevolezza di come viene realizzato un capo di abbigliamento lavorato nei Paesi meno sviluppati. La disponibilità di manodopera a basso costo ha reso Paesi come il Bangladesh il secondo produttore di indumenti al mondo dopo la Cina: con un mercato da 20 miliardi di dollari all’anno, e l'80% delle esportazioni verso l’Unione Europea. Paesi dove lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, spesso minori, è un fatto conclamato e più volte denunciato da Sindacati, Organismi di diritto internazionale e ONG, nell'indifferenza dei governanti e dei cittadini dei Paesi più sviluppati.
Sotto l'egida delle Nazioni Unite (UN Climate Change), marchi leader della moda, rivenditori, organizzazioni di fornitori e altri ancora, hanno concordato di affrontare collettivamente l'impatto sul clima del settore della moda lungo tutta la filiera produttiva attraverso la sottoscrizione della Carta_dellindustria_della_moda_a_favore_del_clima.pdf. Gli esempi virtuosi non mancano: alcuni stilisti hanno dichiarato di voler invertire la tendenza della cosidetta “fast-fashion”, producendo abiti che durino più a lungo nel tempo. Startup di nuova generazione utilizzano materiali di scarto o di riciclo per sviluppare tessuti e filati: è il caso del progetto italiano Orange Fiber, che sfrutta la cellulosa delle fibre dell’arancia per creare capi d’abbigliamento, o di Piñatex che produce un tessuto completamente naturale e biodegradabile con gli scarti della lavorazione industriale dell’ananas, ma sono ancora molti i passi che, complessivmente, le aziende del settore dovranno fare per raggiungere prodotti eticamente e ambientalmente sostenibili.
Uno dei fattori più incisivi di cambiamento è rappresentato dall'economia circolare a cui il comparto tessile è particolarmente interessato: un settore che muove 1.3 trilioni di dollari a livello mondiale, dando lavoro a più di 300 milioni di persone. La pubblicazione della Fondazione Ellen MacArthur "The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy" di cui vi abbiamo già parlato nel nostro sito (articolo "Economia circolare: le città, i nuovi giacimenti urbani" del 27.02.2021), cerca di fornire una panoramica sull'argomento, mettendo in evidenza alcuni dei principali fattori in grado di attivare un modello di economia circolare in questo comparto industriale, che sappiamo essere molto impattante sull'ambiente.
Secondo il report richiamato, tre sono i volani dell'ecomia circolare in quest'ambito:
- il potenziamento degli impianti di raccolta, smistamento e riciclaggio, in grado di renderci meno dipendenti dai mercati esteri, che ad oggi, purtroppo, sono ancora i principali destinatari dei nostri rifiuti tessili
- gli investimenti in ricerca per arrivare a riciclare le fibre sintetiche e in strumentazione tecnologica in grado di rendere più efficace la selezione delle fibre ai fini del riciclo
- un design che pensa ad abiti fatti per essere rifatti.
Nel settore tessile si parla molto di sostituire i materiali vergini con le fibre riciclate, ma questo richiede investimenti negli impianti di raccolta, selezione e riciclaggio dei rifiuti tessili. Al momento purtroppo, a livello internazionale, siamo ancora indietro, infatti, del totale delle fibre utilizzate per l'abbigliamento, ad oggi si stima che:
- l'87% finisca in discarica o incenerito, il che equivale a bruciare un camion della spazzatura pieno di prodotti tessili ogni secondo,
- il 13% dei tessuti venga riciclato, per lo più si tratta di riciclo in usi di valore inferiore che spesso sono estremamente difficili da rimettere in circolo, si tratta, per lo più, della produzione di pezzame a uso industriale utilizzato per la pulizia e la manutenzione (stracci e strofinacci assorbenti e di lavaggio) in ambito metalmeccanico, tipografico e per la protezione di pavimenti,
- solo l'1% è riciclato, trasformandosi in nuovi abiti.
In Italia, stando alle indicazioni contenute nell'ultimo rapporto "L'Italia del riciclo 2020" della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e di FISE UNICIRCULAR, dopo la raccolta differenziata e un eventuale deposito temporaneo, i rifiuti tessili vengono inviati presso gli impianti di trattamento dove vengono realizzate lavorazioni di selezione finalizzate a: riutilizzo (stimato in circa il 68%), indumenti, scarpe ed accessori di abbigliamento utilizzabili finiscono direttamente in nuovi cicli di consumo; riciclo (stimato in circa il 29%), volto ad ottenere pezzame industriale o materie prime seconde per l’industria tessile, imbottiture, materiali fonoassorbenti; smaltimento (stimato in circa il 3%).
A partire dal 1 gennaio 2022 in Italia sarà obbligatorio raccogliere i rifiuti tessili, negli anni successivi anche gli altri paesi membri dell’Ue, introdurranno simili obblighi nei loro ordinamenti. È fondamentale che la normativa attuativa lasci aperto il canale della donazione degli abiti usati anche per far continuare a lavorare tante cooperative sociali che operano in questo settore, tramite le quali si sono creati numerosi posti di lavoro anche per le categorie protette . L’emergenza COVID-19 ha già causato una situazione di grave crisi anche per il settore della raccolta differenziata dei rifiuti urbani tessili, in quanto i mercati di sbocco in cui vengono venduti questi rifiuti sono fortemente rallentati: ciò sta creando problemi sia finanziari che negli stoccaggi di materiale alle imprese del settore. A differenza delle altre raccolte differenziate, infatti, il costo del servizio non viene remunerato dai Comuni o dalle municipalizzate, ma dal ricavo della vendita del materiale raccolto, con il quale si devono anche pagare ai Comuni le royalties per lo svolgimento dell’attività, affidata tramite gara. Nel corso del 2020, questa situazione ha messo a rischio di sopravvivenza le cooperative sociali (poco capitalizzate) che effettuano le raccolte, sia a causa dell’obbligo di pagamento delle royalties ai Comuni, fissate con gare effettuate in periodo pre-COVID, sia per la previsione che all’auspicabile ripresa dei mercati vi sia un ulteriore crollo dei prezzi di vendita del materiale raccolto.
La Commissione europea, a marzo 2020, ha adottato un nuovo piano d'azione per l'economia circolare, uno dei principali elementi del Green Deal europeo, il nuovo programma per la crescita sostenibile in Europa. Prevedendo misure lungo l'intero ciclo di vita dei prodotti, il nuovo piano mira a rendere la nostra economia più adatta a un futuro verde, a rafforzarne la competitività proteggendo nel contempo l'ambiente e a sancire nuovi diritti per i consumatori.
Per la Redazione - Serena Moriondo