di Serena Moriondo
Quando si invecchia il mondo si capovolge, è come se la vita stessa avesse un “dentro” e un “fuori”. E tra quelli che stanno dentro o fuori, comunque distanti, isolati, al margine, ci sono loro.
Non sempre è così, per fortuna, ma i dati delle numerose indagini sociali e delle statistiche demografiche, ci parlano di milioni di persone al di fuori dal ciclo produttivo (l’unico che conti in un sistema capitalistico); dai consumi (che fanno tendenza); dall’uso delle tecnologie avanzate (non possederle o non conoscerne l’uso esclude automaticamente da servizi e prestazioni on-line); dalla vita pubblica; dalle attività di intrattenimento; dagli eventi sportivi; dai programmi di prevenzione …ma, sempre più dentro la solitudine, la depressione, rese spesso vulnerabili dalla povertà e dalle malattie.
Ogni civiltà ha avuto un modo diverso di considerare la vecchiaia e, nel corso della storia, la condizione di vita delle persone anziane ha subito differenti mutamenti. In molti paesi, anche in Italia, alle anziane e agli anziani veniva riconosciuto un ruolo importante perché erano detentrici e detentori di memoria ed esperienza, per l’importanza delle conoscenze e dei valori da tramandare alle nuove generazioni, per l’aiuto e la funzione di guida spirituale e ideale che hanno saputo svolgere.
L’ampliamento di migliori condizioni di vita e di benessere, le misure di solidarietà e la previdenza sociale, oltre che i progressi della scienza e della medicina, hanno prodotto, nel tempo, un significativo allungamento degli anni di vita, accrescendo il numero dei cosiddetti “grandi anziani”. Ogni età della vita aveva un senso, un’attività peculiare e prevalente: lo studio nella giovinezza, il lavoro nell’età adulta, il riposo. Poi le cose hanno iniziato a cambiare: è iniziato a prevalere un concetto utilitaristico dell’essere umano, che vale a seconda della sua produttività e utilità; delle sue capacità di consumo; delle sue abilità; del denaro che è stato capace di accumulare ed è disposto a spendere; ecc. Con questa chiave interpretativa del successo individuale, ogni età è a rischio e la vecchiaia, in particolare, non ha più scopo. Può addirittura diventare un peso per i costi sociali che, inevitabilmente il Paese deve affrontare.
Oggi le cose stanno nuovamente mutando: i sessantenni e settantenni sono diversi da quelli di cinquant’anni fa, vivono una fase della loro vita, che non solo si presenta nuova rispetto al passato in termini di longevità, ma al momento non ha ancora dei modelli di riferimento e delle rappresentazioni sociali consolidati. Molti lavorano ancora; la maggioranza assiste i genitori molto anziani; rappresentano un sostegno per i figli spesso impiegati in lavori precari e, in molti casi, si occupano dei nipoti.
In questo contesto l'estensione della vita, il rallentamento o l'arresto dell'invecchiamento umano, sono sempre più al centro degli interessi di centri di ricerca, aziende farmacologiche e biotecnologiche che cercano di comprendere i meccanismi alla base dell’invecchiamento a livello molecolare in modo da poterlo rallentare.
Intorno al 350 a.C. Aristotele paragonò il “calore vitale” della vita a un fuoco che divampa. Il fuoco poteva essere spento prematuramente gettandovi sopra sabbia o acqua, il che era analogo alla morte per epidemia o in guerra. Oppure il fuoco poteva spegnersi naturalmente, il che era analogo alla mortalità della vecchiaia. La mortalità prematura potrebbe essere ridotta, ma la durata naturale della vita non potrebbe essere estesa. Questo concetto di una frontiera fissa di sopravvivenza era l'idea dominante sulla longevità dal 350 a.C. fino a poco tempo fa.
Nel corso del XX secolo, ci sono stati molti tentativi infruttuosi di stimare il limite ultimo dell'aspettativa di vita umana; ricercatori e istituzioni come le Nazioni Unite e la Banca Mondiale hanno fornito stime che sono state superate, spesso entro pochi anni dalla pubblicazione. Ancora oggi, alcuni studiosi sostengono che è improbabile che l'aspettativa di vita alla nascita superi gli 85 anni in qualsiasi paese. Recenti studi però mostrano progressi nella sopravvivenza in età avanzata, indebolendo il concetto di limite fisso, o quantomeno prevedibile. Un esempio è fornito dall'unificazione tedesca: prima del 1990, le persone nella Germania orientale soffrivano di tassi di mortalità più elevati rispetto a quelli della Germania occidentale. Dopo l'unificazione, lo svantaggio della Germania dell'Est in età sopra i 65 anni scomparve rapidamente. Riduzioni dei tassi di mortalità a tutte le età, così come hanno recentemente fatto altri studi in Giappone, Francia, Stati Uniti, dimostrano che anche le persone molto anziane possono beneficiare di condizioni migliorate negli anni.
Un recente articolo “Demographic perspectives on the rise of longevity” (6 dicembre 2020) pubblicato su “Advancing Front of Old-Age Human Survival” lo dimostra in modo convincente. La tabella 1 fornisce un'illustrazione. Si noti, ad esempio, che in Francia la probabilità di morte a 70 anni nel 2017 è uguale alla probabilità di morte a 60 anni per le femmine e 58 per i maschi mezzo secolo fa. In media, per i paesi e le età riportati nella tabella, negli ultimi 50 anni la mortalità è stata posticipata di circa un decennio.
L'avanzare della frontiera della sopravvivenza fa parte di una più ampia rivoluzione dell'aspettativa di vita. Nel 1840, le donne svedesi godevano dell'aspettativa di vita più lunga del mondo alla nascita: 46 anni. Nel tempo il record mondiale è aumentato costantemente, con diversi paesi in testa. Negli ultimi tre decenni, il Giappone è stato il detentore del record.
Sebbene non esistano ancora tecniche per rallentare l'invecchiamento umano, i ricercatori hanno rallentato con successo l'invecchiamento in lieviti, topi e moscerini della frutta e hanno determinato che gli esseri umani condividono i geni legati all'invecchiamento con queste specie. Trattamenti di successo vengono già testati sugli animali ma non vi è ancora nessun beneficio clinico dimostrato sull’essere umano.
Nel suo libro, “New Mathuselahs: The Ethics of Life Extension” John K.Davis (2018) offre una discussione filosofica delle questioni etiche compresa la sua desiderabilità, l'accesso ineguale e la minaccia di sovrappopolazione. Egli ci rammenta che, in fondo, una “razza umana” che invecchia più lentamente può finalmente crescere, imparare a preoccuparsi maggiormente delle generazioni future, essere maggiormente contraria alla guerra e fare scelte più sagge.
Ma vi stupireste nel conoscere l’esito di alcuni sondaggi realizzati dal Centro di ricerca americano Pew e da alcune università australiane: una, seppur limitata, maggioranza di intervistati non sceglierebbe la vita prolungata se fosse disponibile (56%). E circa i due terzi degli americani non vorrebbe un impianto di chip cerebrale per migliorare le proprie capacità cognitive o sangue sintetico per aumentare le proprie capacità fisiche. Una maggior apertura è stata espressa alla possibilità di utilizzare l'editing genetico per ridurre il rischio di malattie gravi nei bambini (48%). L'opportunità di attraversare questi confini e vivere più a lungo non è cosa semplice da decidere. Tali potenziali progressi hanno sollevato preoccupazioni sull'aumento della disuguaglianza sociale perché sarebbero disponibili solo per coloro che sarebbero economicamente in grado di sostenerne le spese.
Non sono i soli a pensarlo. Molti studiosi di etica sostengono che prolungare la vita è male perché accettare la nostra mortalità ci costringe a investire le nostre speranze nella prossima generazione, imparando così l'altruismo, piuttosto che pensare narcisisticamente alla sopravvivenza personale. Ma il prof. John K.Davis, provocatoriamente, ci invita a riflettere capovolgendone le argomentazioni: se la morte ci insegna ad apprezzare la vita, la vita deve essere preziosa; perché, allora, dovremmo rifiutarne di più? Accettare la morte può essere più facile, non più difficile, quando hai vissuto abbastanza a lungo da realizzare ciò che volevi. Quindi, un giorno potremmo dover rispondere a questa domanda.
La vera domanda però che ci dovremmo porre è: con l'aumento dell'aspettativa di vita, cosa sta succedendo alla salute in età avanzata? Infatti il semplice aumento degli anni non avrebbe alcun senso se la vita non fosse vissuta in salute, senza lasciare indietro nessuno. Si potrebbero elaborare strategie di salute pubblica più efficaci (anche come conseguenza della pandemia di COVID-19) che potrebbero migliorare la salute, ad esempio riducendo la diffusione delle malattie infettive, controllando l'obesità e l'abuso di droghe e fumo. Nel prossimo decennio o due, potrebbero essere compiuti progressi sostanziali: varie malattie, tra cui il cancro, la sclerosi multipla e l'HIV, potrebbero essere trattate con terapie immunitarie potenziate; con la “medicina di precisione” si potrebbero sviluppare trattamenti alternativi che siano ottimali per le persone con vari corredi genetici; ricerche approfondite sulla ricostruzione o la rigenerazione di tessuti e organi, come la ricostruzione della pelle o la rigenerazione del tessuto cardiaco danneggiato da un attacco di cuore, potrebbero portare a un trattamento migliore e forse, in diversi decenni, anche a strategie per ringiovanire tessuti e organi; la ricerca sulla nanotecnologia potrebbe eventualmente portare allo sviluppo di nuovi strumenti per riparare danni o distruggere agenti patogeni o cellule cancerose.
Ma tutto questo non sarebbe sufficiente e nemmeno giustificabile, è necessaria una precisa volontà politica che ancora non si coglie nel PNRR inviato alla Commissione UE, nel voler:
- rimuovere le cause che aumentano i fattori di rischio soprattutto in quella parte di popolazione con meno risorse culturali ed economiche, per coloro che svolgono lavori gravosi e/o in condizioni di scarsa sicurezza e salute, per la generazione dei giovani precari, che per lo più svolgono lavori discontinui e sottopagati;
- adeguare le politiche pubbliche alle esigenze di una popolazione che, fortunatamente, invecchia;
- investire nella ricerca di base e applicata (molto più di quanto è attualmente previsto nel PNRR, in media, di 1,6 miliardi l’anno, lo 0,1% del PIL).
Concludo, citando quanto scritto nel preambolo della Dichiarazione “Trasformare il Nostro Mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”, approvata anche dall’Italia nel 2015, che afferma: “Siamo decisi a liberare l’umanità dalla tirannia della povertà e vogliamo guarire e rendere sicuro il nostro pianeta per le generazioni presenti e future. Siamo determinati a fare i passi coraggiosi e trasformativi che sono urgenti e necessari per mettere il mondo su un percorso più sostenibile e duraturo. Mentre iniziamo questo cammino comune, promettiamo che nessuno sarà escluso”.
Rendiamolo reale.