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FOTO GAETANO SATERIALEdi Gaetano Sateriale

Venerdì 18 giugno il Diario del Lavoro ha presentato il libro “Manifesto per riabitare l’Italia” alla presenza di Carmine Donzelli e Sabrina Lucatelli (tra gli autori), Sergio Cofferati e Pierluigi Stefanini (tra i commentatori). Il video, estremamente interessante, si può vedere sulla pagina YouTube del Diario del Lavoro. Di seguito qualche riflessione ai margini di quella bella discussione.

1. Se l’avessero ascoltata politici (o sindacalisti) del ‘900, sicuramente avrebbero detto: “Molto interessante, ne parlavamo giusto la settimana scorsa al Partito (o al Sindacato), perché stiamo scrivendo una proposta di legge nazionale (o una piattaforma) su questi stessi temi che voi avete richiamato. La prima osservazione da fare parte da qui: il confronto che c’è stato per costruire il “Manifesto” e la discussione di ieri interessano e coinvolgono intellettuali, associazioni, professionisti di varia esperienza perché non c’è nessun soggetto politico (o sindacale) che si faccia carico di questi temi. È triste ma è così. Gli intellettuali, la società civile organizzata, le professioni, le singole competenze, in Italia stanno colmando un vuoto vasto e cronico lasciato dal declino (o dal suicidio) delle organizzazioni di massa.

2. Il “Manifesto” ci invita, fin dalle prime pagine, a “invertire lo sguardo”. A liberarci degli schemi interpretativi deformanti del passato. Per decenni abbiamo immaginato che l’inurbamento (globale e locale) avrebbe aumentato progressivamente il benessere non solo di chi abitava le città ma anche dei territori limitrofi e via via più lontani, in una sorta di sistema a vasi comunicanti che avrebbero omogeneizzato, lavoro, servizi, redditi. Non solo questo non è accaduto ma, al contrario, sono cresciute le diseguaglianze sociali, economiche, ambientali e le precarietà anche nelle città. L’Italia non è più descrivibile nella dicotomia Nord e Sud (e nemmeno nel modello delle “Tre Italie”). Solo ridisegnando le mappe aggiornate delle condizioni demografiche, economiche e di vita in ciascun territorio, a partire dai margini, è possibile ricostruire una lettura efficace e omogenea del Paese.

3. In maniera analoga si dovrebbe dire che è necessario “Invertire le politiche economiche”. Negli ultimi decenni qualcuno aveva immaginato (anche a sinistra) che per garantire uno sviluppo stabile e omogeneo bastasse aiutare le imprese che ci sono (dove sono) e “compensare” in qualche modo i territori a più basso sviluppo economico: più spesa corrente che investimenti, per essere sintetici. Abbiamo verificato ancora una volta (ben prima della pandemia) che la redistribuzione automatica del reddito è una bufala. Tanto più se è proprio il deficit di domanda interna a mettere in difficoltà le imprese che ci sono e dove sono (ricordiamo che in Italia più del 90% delle imprese non vanno oltre i 3 dipendenti). Invertire le politiche economiche vuol dire che spetta allo stato definire gli indirizzi di sviluppo del Paese (si spera in coerenza con l’Agenda ONU sulla sostenibilità sottoscritta anche dall’Italia) e promuovere la crescita degli investimenti privati attraverso un uso “trainante” degli investimenti pubblici. 

4. Quali potrebbero essere gli indirizzi da definire? Perché non siano solo parole che si rincorrono è necessario anche “Invertire le priorità e i bisogni” del Paese. È immaginabile che i mercati da sviluppare siano ancora quelli della produzione di beni di consumo durevoli e della distribuzione su larga scala di prodotti alimentari industrializzati? Su entrambi questi settori la concorrenza tra Europa e Paesi emergenti (o già prepotentemente emersi come la Cina, la Corea, il Giappone, l’India) è in atto da anni. Invertire le priorità significa invece fare i conti con i bisogni insoddisfatti (anche primari) della nostra popolazione e delle sue dinamiche anche demografiche e migratorie. I servizi essenziali non sono una compensazione, sono un nuovo luogo di incontro tra domanda e offerta di qualità. Salute, istruzione, sicurezza, cultura, riduzione dei rischi, manutenzione, valorizzazione del patrimonio, integrazione, ecc. In estrema sintesi si può dire che anche la pandemia ha confermato che abbiamo bisogno di 2 Welfare, entrambi omogenei e “universali”: un Welfare per aumentare il benessere delle persone, il secondo Welfare per aumentare il benessere del territorio. Entrambi da perseguire facendo crescere l’occupazione e innovando le tecnologie e i servizi in una logica di prossimità da applicare ovunque, dalle periferie metropolitane, alle aree interne. 

5. Fino a un paio d’anni fa di fronte a questi argomenti si sarebbe detto: “Bello, ma non ci sono soldi”. Oppure, in qualche caso: “L’Europa non ce lo consente”. Anche allora queste obiezioni non erano fondate: i soldi c’erano (nei risparmi dei privati e nei bilanci pubblici) il problema era come venivano impiegati, non che non ci fossero. Verso la speculazione finanziaria e l’utile rapido piuttosto che non su fattori con un più alto moltiplicatore. Oggi esistono indirizzi europei coerenti con l’Agenda sulla sostenibilità e risorse paragonabili a quelle del Piano Marshall che stanno per essere attivate attraverso il PNRR. In misura coerente? dentro un disegno condivisibile e partecipato? con quali garanzie che la spesa corrisponda con efficacia ai bisogni prioritari? Per ridurre i dubbi e necessario verificare il percorso applicativo del PNRR e “Invertire la Governance istituzionale”. Certo che è indispensabile una “cabina di regia nazionale” ma questo non è sufficiente per incollare i pezzi in cui è stata frantumata la struttura amministrativa e di governo delle regioni e dei territori: un’autonomia regionale che non garantisce i servizi essenziali, città metropolitane come entità virtuale, province zombie, nessun ente di area vasta, città medie senza risorse proprie, comuni troppo piccoli per avere le competenze tecniche necessarie al governo del territorio, aree interne che non hanno più una strategia nazionale vicina ai territori. Torna d’attualità la programmazione multilivello.

6. Chi passa dalle mappe ai progetti? dai bisogni ai servizi? dalla spesa di compensazione agli investimenti, dai bei disegni alle nuove imprese e al nuovo lavoro? Anche qui è necessaria una innovazione: senza una nuova partecipazione sociale, difficilmente si uscirà dalla prassi della spesa in mille rivoli e della mancanza di verifica tra obiettivi e risultati. Ma chi la fa la partecipazione e dove? Nel vuoto della politica occorre “Invertire i soggetti” e far in modo che i cittadini e le loro associazioni siano i protagonisti della nuova politica territoriale che altrimenti resta un sogno o una pratica incoerente. Le associazioni civiche ci sono e numerose. Andrebbero connesse in una rete e rese protagoniste attive di un percorso di confronto e di concertazione territoriale. A partire dalle organizzazioni più diffuse e radicate. Il sindacato potrebbe essere un importante catalizzatore di questa rete. 

Link video: Presentazione Manifesto per riabitare l'Italia