di Serena Moriondo
Henri Cartier-Bresson, che è stato un grande fotografo del Novecento, sosteneva che per capire se uno scatto era di valore bisognasse osservare prima di tutto quello che accadeva ai suoi margini.
Ogni volta che osserviamo qualcosa, tendiamo a centrare nello sguardo l’oggetto del nostro interesse. Quando diciamo “mettere al centro” o “è centrato” significa proprio quello, saper instaurare rapporti con la cornice che gli sta intorno. Non a caso l’etimologia della parola viene dal greco kéntron, ossia l’aculeo del compasso, quello che si infigge in un punto e intorno a cui si delimita la circonferenza. Inquadrare riguarda il mettere al centro, ma pure chiedersi cosa rimarrà fuori o starà in bilico, là, sul bordo.
Quando ascolto o leggo sulla necessità di uno sviluppo sostenibile e che la pandemia ha impresso una svolta etica al capitalismo, mi sento a disagio perché so, con assoluta certezza, che coloro che credono in questo cambiamento, fino ad ora, hanno messo al centro i loro interessi e ai margini quelli del 90% della popolazione che non detiene alcuna ricchezza.
Non a caso il 50% più povero della popolazione possiede collettivamente meno dell’1% della ricchezza totale, il decile più ricco cioè il 10%, ne possiede l’85%. 811 milioni di persone nel 2020 hanno sofferto la fame e 149 milioni di bambine e bambini sono malnutriti, ma sono più di 2,3 miliardi gli individui che non hanno accesso a un’alimentazione adeguata. L’unica certezza è che, nonostante gli sforzi, non si raggiungeranno gli obiettivi per nessuno degli indicatori nutrizionali entro il 2030 (Fonte: “The state of food security and nutrition in the world 2021” pubblicato congiuntamente il 12 luglio da Fao, Unicef, Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, Programma alimentare mondiale delle Nazioni unite e Organizzazione mondiale della sanità). Secondo Oxfam international, i patrimoni dei mille miliardari più ricchi al mondo sono tornati ai loro livelli astronomici pre-pandemici in soli nove mesi, mentre per le persone più povere del pianeta la ripresa potrebbe richiedere 14 volte lo stesso periodo: oltre un decennio. Anche la ripresa economica e sociale dell’Italia deve passare dalla lotta alle disuguaglianze, lo ha affermato l’Ocse nel rapporto “Going for growth 2021: shaping a vibrant recovery”.
Dal mio punto di vista ho, quindi, diverse ragioni per sentirmi a disagio.
E’ di moda credere che sia in corso una reinterpretazione del capitalismo in chiave più sociale, un capitalismo interessato non solo al profitto, rinominato “prosperity” (prosperità) per renderlo più accettabile anche se non è affatto plausibile. Non mi avventuro nel descrivere sofferenze e sfruttamento di molti per l’arricchimento di pochi derivante da ogni forma di capitalismo che altri, con maggiori competenze, hanno fatto nel corso degli ultimi due secoli a partire da Karl Marx.
Il capitalismo mercantilista, industriale, finanziario, borsistico, cognitivo, “dal volto umano” vive una nuova muta (cambio di pelle) impegnato com’è a recuperare “capitale di reputazione” mostrando una cosa sola, che dietro l’apparenza di una autocritica vi è una strategia di rilancio del potere dei grandi gruppi industriali e finanziari che li vede impegnati ad accreditarsi presso l’opinione pubblica come capaci di risolvere i problemi che loro stessi hanno creato: disuguaglianza e povertà, violazione dei diritti imprescindibili di ciascuna persona, morti sul lavoro, sfruttamento ed esaurimento delle risorse ambientali, distruzione degli ecosistemi, malattie e guerre.
Dicono che conoscono i problemi e vogliono far parte delle soluzioni che loro stessi individuano. E’ l’élite più socialmente impegnata ma anche la più predatoria così la definisce, con ragione, la giornalista Nicoletta Dentico.
Che a crederci siano i rappresentanti di quel mondo è plausibile, lo è molto meno che lo sia buona parte della classe dirigente che governa il Paese, a cui evidentemente manca la capacità di comprendere cosa significhi sviluppo sostenibile, economia generativa e qualità del lavoro. Tra le loro fila anche buona parte degli amministratori pubblici che da anni contano sui contributi economici delle fondazioni bancarie e sulla partecipazione delle imprese del terzo settore per garantire i servizi di welfare sul proprio territorio. Consapevoli che, alla fine, a decidere come impiegare le risorse è, per lo più, il “filantrocapitalismo”.
La Dentico, nel suo lungo percorso professionale e d’impegno sociale descrive così il filantrocapitalismo: “Con la suadente moltiplicazione di “iniziative concrete e misurabili” ispirate alla logica aziendale e al diritto privato, in due decenni hanno disseminato qui e là soluzioni che nella maggior parte dei casi non intaccano, talvolta anzi persino rafforzano, le dinamiche di ingiustizia all’origine delle situazioni di cui pure i loro rimedi alleviano qualche sintomo. Un’iniziativa dopo l’altra, hanno definitivamente scompaginato la filiera della responsabilità pubblica nel governo del mondo”.
Sulla scala planetaria, la necessità di una rapida realizzazione della transizione energetica, della lotta contro la distruzione dei suoli, dell’uso intelligente delle risorse rinnovabili finite, della gestione dell’ecosistema globale fragile al fine di evitare un impoverimento della biodiversità e della diversità delle culture, avrebbe richiesto - come mostrato dal Rapporto dell’economista britannico Nicholas Stern, ex dirigente della Banca Mondiale, nel 2006 - di sacrificare almeno l’1% del PIL complessivo annuo per trent’anni. "Se - egli scriveva - non si facesse niente, la percentuale potrebbe diventare anno dopo anno progressivamente più alta, fino al 20% del Pil globale, per contenere i danni climatici."
Vandana Shiva, attivista politica indiana e tra i principali leader dell'International Forum on Globalization, sostiene che l’economia globale contemporanea poggia sulla reinvenzione del progetto di colonizzazione. La prima colonizzazione costruì la nozione di Terra nullius (la terra vuota) per appropriarsi dei territori delle popolazioni colonizzate, nel mondo contemporaneo l’industria chimica e delle biotecnologie hanno costruito la nozione di Bio nullius (o vita vuota) per sottrarre semi tramite la biopirateria con l’uso dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale; l’industria della comunicazione e della sorveglianza ha costruito la nozione di Mens nullius (o mente vuota) per condizionare le nostre menti e controllare le nostre vite, l’economia, la politica. E come scrive Shoshana Zuboff, docente di psicologia sociale presso l’Università di Harvard, nel suo libro “Capitalismo della sorveglianza”, siamo noi la nuova materia prima.
Intendiamoci, il capitalismo è un prodotto umano, nessuno può sentirsi escluso (con le dovute differenze) da questa responsabilità. Per la prima volta però si pone all’umanità il problema dei limiti di sostenibilità, sia della produzione sia dell’inquinamento, con le risorse del pianeta. Le risposte a medio e lungo termine individuate per far fronte alla crisi conseguente alla pandemia si stanno concentrano sul finanziamento della ripresa, che peseranno come macigni sul debito nazionale. In quanto tali, saranno pagati dalle generazioni future.
La generazione attuale ha, quindi, la responsabilità morale di "costruire meglio" ciò significa riavviare in modo sostenibile i nostri sistemi socio-economici e la loro interazione con gli ecosistemi naturali all’insegna della giustizia sociale. È dubbio che questa volta possa essere affrontato e risolto nell’ambito di un’ulteriore mutazione del capitalismo.
Henri Cartier-Bresson (1908-2004) è stato un fotografo francese considerato il padre del moderno fotogiornalismo.