di Gaetano Sateriale
“La politica deve reinvestire nel lavoro. L’obiettivo deve essere la piena e buona occupazione. Il lavoro stabile e di qualità, a partire dai giovani e dalle donne, deve essere un assillo”. Le ultime righe dell’intervista di Maurizio Landini (Corriere della Sera del 19 agosto 2021) contengono indicazioni molto rilevanti. Peccato che l’intervistatore non abbia voluto approfondire.
Sono anni che l’obiettivo della piena occupazione non è al centro delle politiche economiche né italiane né europee. E l’effetto di questa rimozione si vede. Sia nell’aumento ormai strutturale della disoccupazione (giovanile e femminile) che nel peggioramento delle condizioni di lavoro (retributive, dei diritti, della stabilità e della sicurezza). L’idea dominante (di derivazione liberista) è che il tasso di occupazione è una variabile dipendente dal livello di sviluppo. E che basta fare in modo che le imprese riprendano a funzionare e il Pil a crescere per avere una ripresa delle dinamiche occupazionali. Ma sono decenni ormai che questo presupposto non si verifica, tantomeno in Italia. Cosa lo impedisce? La finanziarizzazione dell’economia che produce un effetto minimo sull’occupazione. La globalizzazione che ha messo molte imprese occidentali in crisi di competitività. L’innovazione tecnologica che (almeno in un primo momento) sembra aver bisogno di meno lavoro (di un diverso rapporto tra “capitale fisso” e “capitale variabile” si diceva un tempo). L’idea che più è libero il mercato del lavoro e maggiore sarà la sua capacità “spontanea” di far incontrare domanda e offerta. La priorità, dopo la crisi del 2008, di contenere la spesa pubblica e i deficit di bilancio degli Stati per evitare ripercussioni negative sul tasso di cambio dell’Euro. Per non dire dell’ideologia che il lavoro dipendente è un retaggio del passato e che un reddito di cittadinanza possa sostituire la dignità di un lavoro di cittadinanza.
Ora l’egemonia del pensiero economico liberale si è indebolita, specie dopo la pandemia, e anche a livello europeo si ritiene che uno sviluppo sostenibile (ambientalmente, economicamente e socialmente) deve produrre coesione sociale e riduzione delle diseguaglianze. E ora, soprattutto, ci sono risorse disponibili per le politiche economiche di sviluppo come mai c’erano state dopo il Piano Marshall del secondo dopo guerra.
Siamo alla vigilia dell’applicazione del PNRR secondo indirizzi e progetti in parte già definiti. Nel PNRR esiste l’obiettivo esplicito di creare nuovo e qualificato lavoro? No, non c’è. Permane l’idea implicita che se le imprese si rimetteranno a lavorare si creerà necessariamente nuovo lavoro e nuovo reddito. Ecco perché la riflessione di Landini è importante: se si propone di inserire l’obiettivo della piena occupazione nelle scelte economiche del PNRR. Partire dai bisogni dei cittadini e del territorio (che la pandemia ha amplificato e modificato) e dalla necessità di soddisfarli con infrastrutture, servizi, tecnologie. Impiegare gli investimenti previsti dal PNRR per produrre nuove imprese e nuovo lavoro. Non solo assistere quello che c’è.
Sia chiaro, non basterà un verbale di incontro col Governo per avviare un modello di sviluppo “fondato sul lavoro”. Ma sarebbe un buon inizio. Il resto andrebbe proposto e praticato nelle Regioni e nei territori. Da chi, se non dai sindacati?
La Cgil ha (da qualche anno) nei propri cassetti un Piano del Lavoro che puntava proprio a questa idea: riorganizzare il welfare delle persone e la manutenzione del territorio creando nuovi posti di lavoro. Anni fa ci dicevano che l’idea era buona ma non c’erano le risorse per farlo. Ora le risorse ci sono. Forse è il caso che la Cgil rilanci quel progetto.