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FOTO GAETANO SATERIALEdi Gaetano Sateriale

Si sente dire sempre più spesso che il lavoro deve essere posto al centro delle necessità e delle politiche. Sia dal versante dei partiti (non solo di sinistra) che da quello dei sindacati (meno da quello delle imprese). Questa rinnovata attenzione al lavoro è certo un bene. Ma cosa significa porre il lavoro al centro? Qui le risposte sono molto varie: più di quanto sarebbe necessario. E quasi sempre parziali. C’è chi crede che basti potenziare le “politiche attive del lavoro”, che tutto sono tranne che creatrici di nuova occupazione. C’è chi pensa che debba essere riqualificata l’offerta di lavoro a partire dai curricula scolastici (più preparazione tecnico scientifica e meno cultura umanistica) senza preoccuparsi della qualità della domanda. C’è chi crede (forse in ignorante buona fede)  che con un “reddito di cittadinanza” a prescindere dal lavoro ne incentivi la ricerca. C’è chi ritiene prioritario stabilizzare il lavoro precario già esistente e dargli pienezza di diritti e dignità. Sono tutti aspetti di una nuova attenzione al tema del lavoro, non c’è dubbio. Ma queste visioni sottintendono fino a nascondere il problema vero che è quello di considerare insufficiente la “quantità” di lavoro disponibile. In sintesi: il traguardo della piena occupazione deve tornare a essere il fine esplicito delle politiche di spesa e di investimento dell’UE e dei suoi singoli Stati. Altrimenti, se ci affidiamo alle dinamiche di mercato, come negli ultimi 20 anni, o agli strumenti amministrativi o ai comportamenti spontanei dei singoli, non faremo grandi passi in avanti nel far crescere l’occupazione: come dimostrato dai numeri.

Già prima della pandemia gli analisti delle dinamiche occupazionali segnalavano che era in corso un fenomeno di riduzione delle quantità e insieme di  polarizzazione delle caratteristiche di qualità del lavoro. Da un lato l’aumento delle professionalità tecniche di livello medio alto, dall’altro la crescita enorme di lavori a bassissimo contenuto di competenze (e, conseguentemente, bassi salari e incerti diritti). Due mondi non comunicanti fra loro che danno luogo a comportamenti apparentemente contraddittori e socialmente devastanti: l’aumento degli scoraggiati (ragazzi e ragazze) che non studiano più e non cercano lavoro perché non credono di poter trovare una attività a condizioni soddisfacenti, l’emigrazione in altri paesi europei delle migliori competenze, la difficile ricollocazione di chi perde il lavoro che aveva, le imprese che non trovano gli skill professionali che cercano, il moltiplicarsi dei lavoretti spesso esercitati con un finto contratto autonomo, il riprodursi del lavoro nero e del caporalato, la riduzione del numero di laureati (e il moltiplicarsi dei laureati in legge), e via così. Parallelamente a questo disordine (schizofrenico) del mercato del lavoro, il venir meno del controllo sulle condizioni reali con cui il lavoro si svolge: un lavoro diffuso più che concentrato in fabbriche, uffici, negozi, cantieri, più appaltato e meno visibile. Con la conseguente crescita dell’insicurezza e delle “morti bianche”. E, per finire, gli effetti ancora da analizzare compiutamente dell’innovazione tecnologica digitale sulla quantità e qualità del lavoro.

La pandemia, dopo una fase di blocco delle attività tradizionali, ha accentuato queste dinamiche di polarizzazione e di svalorizzazione del lavoro introducendo l’uso di massa e sregolato del lavoro da casa e primi ma consistenti fenomeni di dimissioni spontanee da un lavoro sempre più insoddisfacente. Difficile credere che il dualismo descritto del mercato del lavoro di oggi si possa ricomporre, indipendentemente dalle dinamiche quantitative della domanda (dei livelli occupazionali disponibili). Allora conviene partire da lì.

Senza la pretesa di risolvere in un colpo tutte le contraddizioni di un mercato del lavoro per sua natura esposto a tendenze plurime (individuali e collettive), rimettere davvero il lavoro al centro delle politiche significa prima di tutto creare più occasioni di lavoro: far crescere i livelli occupazionali quantitativi (soprattutto pensando ai giovani e alle donne). E regolarne meglio le caratteristiche e le condizioni di dignità. Due azioni che non vanno confuse fra loro. Entrambe necessarie ma non legate da un rapporto univoco di causa effetto. Se ci si occupa solo della prima politica, aiutando le imprese dal lato dei costi nella speranza che assumano, molto probabilmente cresce il lavoro povero e sregolato. Se ci si occupa solo della seconda (una nuova legge sui diritti di chi il lavoro ce l’ha già) si trascura e delega ad altri il rapporto tra nuovi investimenti e nuova occupazione. La quantità e la qualità sono politiche entrambe necessarie e parallele: due gambe di un’azione di innovazione economica e legislativa (due gambe anche di un rinnovato agire sindacale).

Anni fa (quando la Cgil presentò il suo “Piano del Lavoro”) questa discussione apparve utopistica e solo metodologica, poiché non vi erano risorse per una politica economica espansiva anche sul piano occupazionale. Oggi il contrario: vi sono ingenti risorse che rischiano di essere impiegate (in Italia come in Europa) avendo precisi indirizzi di contenuto ma slegati dal loro effetto occupazionale. L’UE e il PNRR, per dirla brutalmente, finanziano il cosa fare ma non il chi e il quanti lo faranno.

Ecco perché l’applicazione del PNRR (con i suoi contenuti innovativi) diventa un’occasione straordinaria per la politica e il sindacato di usare quelle risorse non solo finalizzate a scelte di sviluppo verde e digitale ma anche sociale: attraverso una esplicita e rilevante crescita dell’occupazione.

Concretamente cosa significa? Per la componente politica istituzionale che condivide l’idea di mettere al centro il lavoro significa misurare e selezionare i progetti che impiegano risorse pubbliche non solo per il grado di coerenza con gli indirizzi previsti dal PNRR ma anche (soprattutto) per gli effetti occupazionali della loro realizzazione. Quanti posti nuovi si creano deve divenire un “punteggio” per la selezione dei progetti. Per la componente sindacale che vuole mettere al centro il lavoro (non solo quello che c’è, anzi, soprattutto quello che non c’è) significa sviluppare una nuova contrattazione o concertazione territoriale diffusa in grado di dare le risposte nuove e giuste, anche in termini occupazionali, ai bisogni della popolazione italiana pre e post pandemia.

Qualche esempio da entrambi i versanti, a partire dal concetto di “prossimità dei servizi” (la “città dei 15 minuti”) che è diventata una delle esigenze di riferimento indispensabili per un nuovo “contratto sociale” tra cittadini e amministrazioni. Infermieri di quartiere significa nuove assunzioni e nuova formazione a chi opera già nel settore (e anche mobilità per garantire una medicina più diffusa). Trasporti pubblici più vicini ed efficienti significa investimenti in nuovi mezzi, maggiori frequenze, assunzioni, riduzione dell’uso delle auto private, aree pedonali in ogni quartiere, linee di trasporto più “penetranti” nelle periferie e nel territorio extra urbano. Migliorare l’approvvigionamento di alimenti (o farmaci) a partire dalle persone anziane significa organizzare una distribuzione garantita e “certificata” a domicilio da parte dei negozi (e delle farmacie). Parlare di rigenerazione di spazi urbani di convivenza e relazione significa assumere personale che si occupi di arredo urbano, di verde pubblico, di superamento delle barriere architettoniche, di manutenzione e restauro degli spazi pubblici (tornare a una città delle persone più che delle auto). Fare delle biblioteche, delle scuole, delle università un luogo non più riservato a insegnanti e allievi ma aperto agli incontri e agli scambi culturali fra i cittadini, significa modificarne gli orari, fare assunzioni, promuovere iniziative. Per non dire del lavoro di manutenzione e prevenzione dei rischi sulle strade, i ponti, i fiumi, i boschi, le coste che devono tornare ad essere un patrimonio che aumenta il valore del territorio e non che lo riduce. E che possono diventare occasioni di lavoro ma anche di nuova residenza,  in antitesi allo spopolamento, sia per italiani che per migranti.

Tutto questo è possibile: e molto di più. Se oltre alle risorse e agli indirizzi macro si avvieranno politiche di territorio che mettano “coi piedi per terra”, come si dice, i progetti di rilancio del Paese a partire dal PNRR. Il sindacato può avere un ruolo importante in questo ambito, se si sforzerà di far marciare insieme le due gambe di cui parlavamo: la crescita della quantità del lavoro e dei suoi diritti. È brutto da dire ma da sempre il lavoro prima si crea, poi si qualifica e si protegge. Difficile immaginare il contrario. Difficile credere che aumentino davvero i diritti se si riduce il lavoro.

La nostra Associazione “Nuove Ri-Generazioni” è pronta a dare un contributo a coloro che sceglieranno di sperimentare questa nuova stagione di mobilitazione e contrattazione. Lo abbiamo fatto in un anno difficile, continueremo a farlo: aiutando la costituzione di NuRiGe territoriali, facendo informazione, diffondendo le buone pratiche con il nostro sito e queste Newsletter.