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Foto giustizia a sinistradi Serena Moriondo

Ciascuno di noi può stabilire in che modo essere cittadino e cittadina. E ciò rappresenta, indubbiamente, una conquista delle democrazia.

Libera è la scelta di partecipare o no ma, al di là di ciò che farà ognuno di noi il 12 giugno sui Referendum sulla giustizia, vale la pena rammentare che tale strumento, voluto dalle donne e gli uomini che scrissero la nostra Costituzione, accanto a quello delle leggi di iniziativa popolare sono da considerarsi come strumenti fondamentali per la partecipazione dei cittadini alla vita della Repubblica.

Negli anni passati, soprattutto in materia di diritti civili, dal divorzio all’aborto, ma anche sui temi del nucleare, dell'acqua a gestione pubblica e della legge elettorale, le cittadine e i cittadini hanno utilizzato con convinzione lo strumento referendario innescando significativi e persino storici cambiamenti. Forse anche a causa di errori politici e di comunicazione dei promotori, oggi non è più così, sono ormai numerosi, infatti, i quesiti, costituzionali o civili, andati disattesi per mancanza di raggiungimento del quorum.

Secondo Giovanni Maria Flick - giurista, già Ministro di grazia e giustizia e Presidente della Corte costituzionale -  il tramonto dei partiti, il tendenziale esaurimento della loro democrazia interna e del rapporto con il territorio, l’avversione per il concetto di mediazione politica, la scarnificazione della rappresentanza sociale, la selezione oligarchica dei candidati al governo delle Amministrazioni locali e al Parlamento, hanno finito per relativizzare la stessa rappresentanza producendo un inevitabile, conseguente deficit di democrazia. Per questo c’è chi si è chiesto perché, di fronte alla crisi profonda dei partiti, i cittadini italiani che hanno contestato e contestano ancora così fortemente i partiti e taluni anche la democrazia rappresentativa, si rifiutano poi, nel contempo, di aderire agli strumenti della democrazia diretta come il referendum.

La risposta non è semplice e, nel contempo, nessuno può negare che esista nel Paese una “questione giustizia” sia per i processi troppo lunghi ma anche per quel metodo spartitorio di governo, meglio conosciuto come “correntismo”, dentro il Consiglio superiore della magistratura (Csm) che continua a condizionare non solo le carriere direttive.

Ma i quesiti referendari possono solo abrogare le leggi e non proporre riforme organiche di cui, al contrario, il nostro Paese avrebbe assolutamente bisogno e, alla fine, il sentore dei cittadini è quello di essere chiamati ad esprimersi su questioni altamente tecniche, su cui ci si aspetterebbe di vedere il Parlamento prendere le decisioni in base a proposte condivise (almeno) all’interno del Governo. E, diciamolo,  il Parlamento non dovrebbe avere bisogno di stimoli quali i referendum per legiferare!

Se poi, ai cittadini, si sottopongono questioni cariche di sfumature attraverso quesiti estremamente complessi, diventa tutto obiettivamente più difficile e di facile strumentazione, da ognuna delle parti. I messaggi a cui siamo sottoposti, che il filosofo americano J. Stanley definirebbe  propaganda demagogica, devono la loro  efficacia in primo luogo al fatto che la società, permeata da credenza preconcette e superficiali, fa sì che le persone non si accorgano più neppure del conflitto che intercorre tra gli ideali di giustizia sbandierati dalla propaganda e i fini che vengono realmente promossi. In sostanza, la propaganda politica a cui ogni giorno siamo sottoposti ha un effetto dannoso sulla conoscenza e, quindi, ha la funzione di compromettere la capacità di azione politica e le possibilità di emancipazione sociale.

Tutto questo però mortifica la nostra Carta costituzionale e i suoi valori, e con essi le opportunità di scelta che ci ha dato.