di Serena Moriondo
Per molto tempo abbiamo associato l’Intelligenza Artificiale (IA) alla fantascienza, come quella descritta da Isaac Asimov, il più grande scrittore di questo genere letterario a riflettere seriamente sulle sue implicazioni, coniando le Tre Leggi della Robotica che sono state a lungo di ispirazione per una parte importante della ricerca in questo campo.
È facile però cadere nell’errore di umanizzare l’IA. Oggi molti studiosi pensano che, quella che viene comunemente chiamata Intelligenza Artificiale, altro non possa e debba essere che la ricerca nella progettazione di macchine che aumentino, come una leva, l’intelligenza umana esistente, rafforzando “il modello cognitivo protesico".
Nell’immaginario comune, l’IA viene spesso rappresentata come una macchina in grado di “apprendere” nello stesso modo in cui potrebbe farlo una bambina o un bambino, di “pensare” o giungere a conclusioni simili a ciò che avviene con gli esseri umani. Anche il termine “reti neurali” (un algoritmo modellato sul cervello umano), fa apparire le decisioni prese da una macchina simili a quelle di un cervello umano.
Tuttavia non è così e pensarlo può essere fuorviante e persino pericoloso. Ma è indubbio che tali tecnologie saranno alla base di importanti cambiamenti in ogni settore (mobilità, sanità, settori produttivi, energia, istruzione, ecc.), ma dobbiamo comprenderne i limiti e l’impatto sul piano occupazionale. Vediamo insieme come.
Link: Non_chiamiamola_intelligenza_artificiale_-_Moriondo_21072022.pdf