di Serena Moriondo
Quando si prova a descrivere cosa sta succedendo al confine tra Armenia e Azerbaigian, teatro in queste ore di scontri a fuoco con artiglieria e droni, non c'è nulla di più vero della citazione della filosofa tedesca Hannah Arendt: "La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri".
La foto ricorda molto quella che abbiamo pubblicato nell'articolo "Giochi da maschi" del 17 marzo scorso, che raffigurava il tavolo di negoziato (tutto composto da uomini) della guerra voluta dalla Russia con l'Ucraina, al termine del quale scrivevamo "E a chi pensa che le donne non potranno fare meglio degli uomini rispondiamo con le parole di Catharine Alice MacKinnon, già consigliera speciale di genere presso la Procura della Corte penale internazionale: "Non possiamo in alcun modo sapere quanto e come donne e uomini siano diversi, fino a quando non potremo vederli in una situazione di uguaglianza", magari al tavolo di un negoziato di pace.".
Le tensioni mai sopite lungo la frontiera tra Armenia e Azerbaigian avevano cominciato a riaccendersi la scorsa settimana, ma centro della disputa tra i due Paesi c'è la regione del Nagorno-Karabakh, parte dell'Azerbaigian secondo confini internazionalmente riconosciuti, ma popolata perlopiù da armeni.
Un divario che si estende oltre che alla politica anche alla cultura e alla religione: l'Armenia è un paese a maggioranza cristiano ortodosso, mentre l'Azerbaigian è prevalentemente musulmano.
Negli anni Novanta e nel 2020 Yerevan e Baku hanno combattuto due guerre per il controllo del Nagorno-Karabakn, abitato in larghissima maggioranza da armeni, ma parte del territorio dell'Azerbaigian, nel 1994 ha proclamato la propria indipendenza col nome di Repubblica dell’Artsakh, ma non è mai stata riconosciuta a livello internazionale, nemmeno dalla stessa Armenia. Il conflitto che ne è seguito ha causato circa 30 mila vittime. Le sei settimane di combattimenti nell'autunno 2020, invece, hanno fatto oltre 6.500 morti e si sono concluse con un cessate il fuoco mediato dalla Russia. In base all'accordo, l'Armenia ha ceduto parti di territorio che controllava da decenni e Mosca si è assunta il compito di monitorare la tregua. Gli osservatori internazionali ritengono che i combattimenti di lunedì notte siano i peggiori dal conflitto del 2020.
Aldo Ferrari, che Insegna Lingua e letteratura armena, Storia del Caucaso, e Storia della cultura russa presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, ha scritto che “Se quella che il Cremlino definisce ‘operazione militare speciale’ in Ucraina fosse stata gestita meglio e con successo dalle truppe russe ora forse non ci troveremmo ad osservare il riaccendersi di un conflitto potenzialmente destabilizzate per tutto il Caucaso centrale. Invece, l’evidente difficoltà dei russi sul fronte nord-occidentale dell’Ucraina ha finito col minare il ruolo egemonico della Russia nel Caucaso meridionale: Mosca, con ogni probabilità, non potrà intervenire in difesa dell’Armenia e l’Azerbaijan ha colto l’attimo. Se vuol essere coerente con i propri principi, la Comunità internazionale dovrà impegnarsi a tutelare l’Armenia, condannando l’intervento di Baku nonostante il suo ruolo di importante fornitore di gas”(Fonte: Istituto di politica internazionale).
Noi avremmo preferito che Putin non avesse mai iniziato la guerra.