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FOTO Rossella Muroni 1300 675x275di Rossella Muroni, Presidente dell'Associazione Nuove Ri-Generazioni

La crisi climatica è ormai sotto gli occhi di tutti, anche in Europa. Dove l’estate 2022 è stata la più calda di sempre. Arrivare a metà secolo con emissioni nette zero è determinante per contenere gli effetti più estremi dei mutamenti climatici in atto, ma per centrare l'obiettivo servono tappe intermedie come la riduzione di almeno il 55% delle emissioni serra al 2030. Per questo è nato il pacchetto ‘Fit for 55’ proposto dalla Commissione Ue, che comprende anche la revisione della direttiva per l'efficientamento energetico degli edifici. Un provvedimento su cui il Parlamento europeo con la Commissione Industria Ricerca e Energia si esprimerà il 9 febbraio, poi in plenaria, e che per marzo dovrebbe andare al trilogo - l'incontro negoziale tra Commissione, Parlamento e del Consiglio Ue.  

Considerando che gli edifici sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni di gas serra in Ue, la nuova direttiva in bozza rappresenta un passo avanti importante, ambizioso e necessario. In italia diventa invece una patrimoniale camuffata da bloccare. Tanto che al grido ‘la casa è sacra’, la destra ha annunciato una risoluzione per chiedere al governo di contrastare la norma di Bruxelles. E tutto questo nonostante il via libera alla riforma dato dal ministro Pichetto Fratin durante il Consiglio Energia dello scorso ottobre.
Ma cosa prevede questa bozza di direttiva?

Innanzitutto sgombriamo il campo dalle fakenews: non c’è il divieto di vendita o locazione delle case con prestazioni energetiche basse.  
Tra le misure previste c’è, invece, la fissazione di nuovi standard minimi di efficienza energetica. Gli edifici privati dovrebbero diventare almeno di classe E entro il 2030, di classe D entro il 2033; per gli edifici non residenziali esistenti si punta a ridurre di almeno il 15% il consumo di energia primaria entro il 2030 e di almeno il 25% entro il 2034. Inoltre dal 2030 tutti i nuovi edifici dovranno essere a emissioni zero; da fine 2026 a fine 2029 scatterà anche l’obbligo per tutti i nuovi edifici, a partire da quelli pubblici, di essere progettati prevedendo di installare impianti solari. Ci saranno alcune eccezioni alle regole, tra cui gli edifici storici, luoghi di culto, case indipendenti fino a 50 metri quadrati, seconde case abitate per meno di 4 mesi ogni anno. Non sono previste sanzioni per chi non si adeguerà, demandando il compito di stabilirle ai singoli Stati. Altro elemento importante, nel testo presentato dal relatore del Parlamento europeo, l’irlandese Ciaran Cuffe (Verdi europei) si prevedono maggiori tutele sociali per i proprietari di immobili con l’utilizzo del Fondo sociale per il clima e i finanziamenti del Recovery.

Tutto ciò premesso, bisogna riconoscere che alcune specificità italiane rendono la questione molto delicata: abbiamo un patrimonio edilizio vetusto, con il 74% degli immobili costruito prima che entrassero in vigore la normativa sul risparmio energetico e sulla sicurezza sismica, e una proprietà prevalentemente privata, con il 70,8% delle famiglie che possiede la casa in cui vive.  Sarebbero fuori dalle performance indicate dalla direttiva, secondo stime dell’Ance, più di 9 milioni di edifici residenziali su 12,2. Visti i numeri in molti soffiano sul fuoco dei costi di riqualificazione.

Ma chi grida all’Europa matrigna e si scaglia contro i ‘costi d’oro delle case green’ – dalla destra alle associazioni dei proprietari, passando per ampia parte della stampa italiana - dimentica i costi energetici già oggi insostenibili delle nostre case e gli strumenti che si possono mettere in campo per sostenere le politiche di efficientamento energetico. Penso ai già citati Fondo sociale per il clima e ai finanziamenti del Recovery, e soprattutto a uno strumento che noi italiani già conosciamo e usiamo con successo: il Superbonus. Una sorta di amnesia collettiva che dimostra non si comprendano i benefici che la nuova direttiva, se accompagnata con adeguati strumenti di finanziamento delle riqualificazioni, può portare in termini di taglio delle bollette, dei consumi e delle emissioni e di creazione di nuova occupazione di qualità. 

D’altra parte non è un caso se il Superbonus, dopo essere stato avversato dal precedente esecutivo, è stato ridimensionato proprio da questo governo. Al contrario per esprimere a pieno le sue potenzialità andrebbe riformato come proposto per esempio dalla Fillea Cgil, lasciando la cessione del credito (da rendere però facilmente fruibile, non come è stato fatto finora) e la copertura del 100% per i condomini popolari e le fasce con minor reddito (a partire da pensionati, precari, disoccupati, lavoratori poveri), prevedendo percentuali differenziate in proporzione ai miglioramenti e usando come leva di “autofinanziamento” gli stessi risparmi in bolletta. Se il Superbonus venisse stabilizzato, semplificato e legato in modo più stringente al miglioramento della prestazione energetica, al superamento delle barriere architettoniche e agli interventi su condomini e case popolari, gli italiani non dovrebbero temere né i costi delle ristrutturazioni, né una svalutazione del loro patrimonio edilizio. Ma potrebbero utilizzarlo serenamente per migliorare la qualità dell’abitare e anche il valore stesso delle loro case.

Questa ennesima polemica anti-europea ha il sapore di un’occasione mancata. Peggio ancora, di un vero e proprio regresso. Già perché il Superbonus nato durante la pandemia è il figlio maturo dell’ecobonus, la detrazione Irpef o Ires del 55% delle spese sostenute per gli interventi di riqualificazione energetica introdotta dalla Finanziaria 2007. Rappresenta, dunque, uno dei casi in cui noi italiani ci siamo mossi per primi diventando un'avanguardia, più europei degli europei. Vorremmo insomma che la discussione si spostasse, come dovrebbe essere tra persone serie, non sugli obiettivi ma sul come raggiungerli.