di Serena Moriondo
Le riflessioni prodotte nel II° Convegno internazionale degli architetti e tecnici dei monumenti di Venezia del 1966, non solo restano ancora attuali ma sono il punto di partenza per qualsiasi dibattito sull’incontro in architettura tra il nuovo e l’antico. Così come la Carta di Gubbio lo è stata qualche anno prima (1960) per la salvaguardia e il risanamento dei Centri Storici.
E non è un caso che questi temi siano stati affrontati con particolare attenzione proprio nel nostro Paese dove il confronto con la storia è sempre stato centrale, talvolta ingombrante, sicuramente impossibile da ignorare.
Ma questo tema in Italia ha prodotto molte divisioni, più che in altre storiche città europee, si pensi, ad esempio, all’annoso dibattito (non ancora risolto) sulla Loggia Isozaki a Firenze, la struttura progettata per l’uscita dalle Gallerie degli Uffizi dall’architetto giapponese Arata Isozaki, recentemente scomparso, che l’attuale ministro della Cultura, Sangiuliano, intenderebbe rimpiazzare con “un muro verde” (lo stesso esponente di Governo che sul rincaro dei musei dal 1° marzo ha dichiarato che: “È giusto che le cose di valore si paghino”, sdoganando il concetto che la cultura diventa un fatto di censo).
Così non è avvenuto, infatti, con l’operazione compiuta da R.Piano e R. Rogers con il “Centre national d’art et de culture Georges-Pompidou” (più semplicemente Beaubourg), in pieno centro storico di Parigi. Fino a quel momento, siamo alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, i musei erano visti soprattutto come custodi fisici delle opere d’arte. Renzo Piano stravolge proprio questo concetto partendo dalla negazione dell’effetto scatola e facendo diventare un museo soprattutto un luogo di incontro, una piazza culturale. Per non parlare della monumentale piramide di vetro di accesso alla Ville Louvre che assolve alle funzioni di centro di raccolta e smistamento del pubblico che, sì ha prodotto un vivace dibattito in Francia ma, come già era successo un secolo prima con la Tour Eiffel, nonostante le critiche aspre, l'opera non solo è stata portata a compimento ma ha riscosso, sin dall’inaugurazione a fine anni '80, un grande successo.
La conservazione e la tutela sono prioritari, sia per noi che per chi verrà dopo, ma è inevitabile fare i conti con le nuove arti e le nuove architetture tanto quanto la necessità di far fronte ai bisogni essenziali dei cittadini (trasporti, abitazioni, parchi, presidi sanitari, scuole) sapendo sempre valutare il sito dove si va ad operare.
L’architetto Bruno Zevi, divulgatore dell’architettura organica in Italia a metà del ‘900, ha più volte sottolineato come nelle nostre città si riesca, nello stesso momento, a lasciare in rovina i centri storici e ad ostacolare in ogni modo l’affermazione dei valori dell’architettura moderna, ora contemporanea. Egli scrisse: “L’architettura moderna deve essere francamente moderna, e non antica mascherata da moderna: deve puntare sulla creazione di un panorama nuovo, in larga misura antitetico a quello antico“ aggiungendo “nel proporci il problema dell’incontro tra antico e nuovo non basta preoccuparsi di salvare l’antico; occorre anche difendere il nuovo. Le due operazioni sono culturalmente connesse; riconoscendo che i valori espressivi del nuovo non si conciliano con l’antico, quando decideremo di proteggere l’antico lo faremo con assoluta coerenza; quando ammetteremo l’incontro, saremo coscienti di creare nuovi valori in dialogo, per contrasto, col tessuto antico. In ogni caso, eviteremo l’imbroglio, il «classico modernizzato» o il «moderno ambientato», insomma tutti quei compromessi attraverso i quali offendiamo il passato ed il presente“.
La mediazione, in quegli anni, tra la sua visione e i suoi oppositori, fu che fosse un "piano regolatore urbano" ad affrontare le problematiche legate all’inserimento del nuovo nell’antico, stabilendo una strategia che fosse, di caso in caso, di tutela e/o di sperimentazione. Oggi però, a detta di molti esperti, non solo in molti Comuni il governo del territorio non è il primo interesse delle amministrazioni il ché ha prodotto scempi e abusi, ma la stessa disciplina del vincolo ambientale e la tutela diffusa hanno svuotato di significato il vincolo architettonico in quanto tale, perdendo autorità e fondamento e questo rappresenta un doppio problema: deresponsabilizza chi governa diffondendo incuria e abbandono e, al contempo, ostacola la naturale evoluzione delle nostre comunità e il godimento del prezioso patrimonio artistico e culturale che possiede il nostro Paese.
Con tutti i limiti esistenti, lo strumento urbanistico però rimane l’unico modo di incanalare il cambiamento. Ma, sono in molti a pensare, che dovrebbero esserci pianificazioni coraggiose non norme, linguaggi, strumenti che ai più risultano illeggibili e respingenti, piuttosto strumenti che permettano la realizzazione di architetture contemporanee anche in un tessuto antico senza per questo imboccare le strade che il “libero mercato” impone ovunque.
Penso alla quantità di appartamenti e alberghi di lusso o fast food che continuano a spuntare come funghi nei centri storici delle nostre città, Roma ne è un esempio (Edition, Six Senses, W, Orient Express, Four Seasons, Mandarin, Bulgari, Romeo, Rosewood, Citizen M, Social Hub, Palazzo Ripetta, The Hoxton, Unahotels, Mama Shelter, The First sono solo una parte dei brand che hanno appena aperto o stanno per farlo nella capitale).
Ma anche al tema dell’utilizzo di beni storici e artistici a fini commerciali, come succede al Museo Bardini, palazzo rinascimentale fiorentino all’interno del quale si celebrano le nozze tra opere di epoca medievale, o nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio basta poter spendere 5.000 euro, o ancora, al fatto che - pagando 68 euro anziché 25 - i cani potranno entrare agli Uffizi insieme al loro padrone. Per non parlare di quanti veneziani hanno ceduto le loro abitazioni alle agenzie che affittano appartamenti ai turisti trasferendosi altrove o che hanno venduto le loro licenze commerciali di negozi e banchetti di prodotti artigianali ai cinesi e si lamentano perchè Venezia è invivibile, piuttosto che degli ingenti danni arrecati all’Arena di Verona durante le operazioni di smontaggio della grande stella cometa – una struttura in acciaio alta 70 metri e pesante 78 tonnellate - posizionata tra la piazza e l’arena per le festività natalizie – crollata sui gradoni di marmo dell’anfiteatro romano.
O i gravi attentati avvenuti per mano della mafia negli anni Novanta agli Uffizi di Firenze (Strage di Via dei Georgofili), del Padiglione d’Arte Contempronea di Milano (Strage di Via Palestro), dei Palazzi Lateranensi e di San Giorgio al Velabro a Roma che andarono ben oltre i danneggiamenti al patrimonio culturale tramite barattoli di zuppa gettati sul vetro protettivo di un quadro o le vernici lavabili per imbrattare statue ed edifici per alzare l’attenzione sulle problematiche ambientali, ma che molte cariche dello Stato oggi, a trent’anni da quei fatti in cui vi furono anche delle vittime, pare se ne siano dimenticati.
Il tema della correlazione tra ambiente fisico e società che lo abita, ora più che mai, di fronte ai cambiamenti climatici e alla resilienza delle città, è attuale.
Le vere innovazioni, come riconoscono gli esperti, avvengono per punti, quando si riesce a utilizzare un complesso abbandonato, quando si realizzano attrattori come poli di irraggiamento in grado di innescare la rivitalizzazione di parti più ampie del tessuto. In prospettiva dovremmo agire sapendo che ogni caso è una storia a sé, per il processo formativo, per i suoi caratteri morfo-funzionali, per lo stato di conservazione, per le vocazioni. Analogamente non è possibile considerare l'intera città storica come un blocco omogeneo tanto nel passato quanto nel futuro e dovremmo iniziare a tutelare anche l'architettura contemporanea di riconosciuto valore.
Il filosofo Luciano Floridi, professore Ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab dell’Oxford Internet Institute, ha sostenuto che il libro Sull’utilità e il danno della storia per la vita di Nietzsche ci mostra quanto la storia possa essere un fattore completamente bloccante. La storia - egli spiega - è fondamentale, ma come secondo momento dialettico, è ciò con cui dobbiamo confrontarci ma non deve essere il punto di partenza. Il progresso si fa in seconda battuta confrontandosi con la storia e in prima battuta pensando qualcosa di nuovo.
Personalmente non ho alcun titolo o specializzazione in questo campo per giungere ad una conclusione, a guidarmi solo il buon senso e la convinzione che la bellezza è un diritto dell'umanità in ogni tempo e, per questo, è necessario saper accettare “l’incontro” tra il nuovo e l’antico. Ma, soprattutto, si può continuare ad enfatizzare ora l'uno ora l'altro ma, a prescindere dalle opinioni, è necessario puntare responsabilmente sulla qualità urbana e la sua sostenibilità.
E non si può ragionare sulla qualità e la sostenibilità se non si affronta anche il tema spinoso del peggioramento delle condizioni di lavoro nel settore dei beni culturali italiani fatto di precarizzazione, salari inadeguati, inquadramenti professionali nebulosi, tossicità degli ambienti di lavoro.
Dall’approvazione della legge Ronchey - legge votata all’unanimità dal Parlamento il 14 gennaio del 1993, che stabiliva l’esternalizzazione dei servizi di musei e biblioteche, e sanciva la possibilità di utilizzare volontari a integrazione del personale nei musei, archivi e biblioteche statali, successivamente ampliata nel 2004 con il Codice Urbani - la situazione del settore è peggiorata, soprattutto nella qualità degli ingaggi. La maggioranza di questo personale, per lo più giovane e iperspecializzato, è costretta a dichiarsi libero professionista e ad aprire la partita IVA, come unica condizione per poter lavorare. Il 73% ha un committente principale, ed è pagato a ore o a giornata (meno di 8 euro l'ora) e il lavoro autonomo nella maggior parte dei casi maschera, guarda caso, un lavoro dipendente. L’altra faccia della medaglia è quella rappresentata dai dipendenti pubblici, che riportano la carenza drammatica di personale impiegato, per il MiC (ministero della Cultura) si parla di un 50% dell’organico necessario e la mancata pianificazione delle assunzioni non ha garantito il turnover a fronte dei pensionamenti (Fonte: Associazione "Mi Riconosci?", gruppo costituitosi nel 2015 impegnato a censire la qualità delle condizioni lavorative nel settore attraverso dati e testimonianze dirette di chi opera nel mondo dei beni culturali e, anche se in percentuale meno signicativa, nel comparto dello spettacolo).
Per la Redazione - Serena Moriondo