Non vi è dubbio che la sfida sulla transizione ecologica che abbiamo di fronte sia immensa perchè, in fondo in fondo, si tratta di molto di più, si tratta di giustizia sociale. Per affrontare il cambiamento climatico non basta, infatti, ripensare le politiche energetiche e ambientali, di per sè già una sfida ardua, ma tutti i settori della società devono partecipare a questo processo, a cominciare dal mondo del lavoro.
Siccità e temperature elevate, frane e alluvioni. I fenomeni naturali hanno sempre avuto un peso determinante nella vita sociale ma, sempre più frequentemente, a causa di fenomeni quali l'industrializzazione, la globalizzazione, l'elevata produttività ma, sopra ogni cosa, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, si sono resi evidenti cambiamenti climatici che hanno un impatto devastante sull'intero pianeta. Con il fenomeno sta crescendo, seppur ancora troppo lentamente, anche una sensibilità al tema.
Il cambiamento climatico però è un fenomeno che riguarda tutti, indubbiamente, ma che non ha lo stesso impatto su tutti. È per questo che, quando si pensa alle strategie per affrontare questo fenomeno, è necessario promuovere un cambio di paradigma. La transizione ecologica deve tenere conto delle crescenti disuguaglianze sociali e può quindi essere un'opportunità per ripensare il modello di sviluppo e, conseguentemente, il mondo del lavoro. Si parla di transizione giusta, infatti, per sottolineare la necessità di portare avanti misure che siano sì favorevoli a ridurre i gas climalteranti, ma che abbiano altresì un’attenzione particolare alla giustizia sociale.
Nell'articolo "La transizione giusta è una rivoluzione", apparso su Collettiva.it il 24 luglio, Luciana Castellina, tra le voci piú autorevoli del nostro tempo, con la sua consueta capacità di analisi - spiega che "(..) Era un po’ di tempo che la parola “rivoluzione”, pur accompagnata dall’aggettivo “piccola”, non veniva più nominata. Ma non era perché non ce ne fosse più bisogno, ma solo perché la peggior sconfitta subita negli ultimi decenni da chi in questo mondo non ce la fa a vivere decentemente, è l’aver perduto la fiducia di poterlo cambiare. A chi invece questo mondo va bene così, è riuscito infatti di render egemone il concetto cui gli anglosassoni hanno persino dato un nome ormai molto in voga: THINA, in inglese “there is no alternative”, in italiano “non c’è alternativa”.
Tutt’al più cercano di far passare l’idea che sarebbe possibile tornare indietro, al bel tempo passato, il cosiddetto trentennio felice in cui il grande boom industriale scoppiato fra gli anni’50 e ’70 aveva consentito, ma solo in occidente, l’affermarsi di un compromesso sociale relativamente equo, tale da consentire i margini per quelle riforme sociali che i lavoratori, sia pure grazie a lotte molto aspre, erano riusciti ad ottenere. Quello, insomma, che ha fatto star un po’ meglio nonni e padri, ma poi, non più, i figli.
Tornare al passato, però non è possibile, perché il mondo è nel frattempo cambiato profondamente.
Non solo: questi limiti inderogabili hanno acuito la competizione internazionale, sempre più sregolata per via di una globalizzazione che premia il più forte e non l’obiettivo di una società complessivamente più equa. Così aprendo la strada a uno scontro per il controllo del mondo che, date le nuove tecnologie militari – il nucleare sta ormai anche nelle armi a medio raggio usate da ragazzi, non più solo nelle “brave” bombe di un tempo – può portare a una catastrofe senza precedenti."
"Questo esito - spiega la Castellina - ha un nome: il capitalismo moderno è entrato in crisi, e per sopravvivere ha per prima cosa puntato a ridurre, e persino a cancellare, proprio quelle riforme cui aveva potuto ricorrere per far fronte alle grandi lotte degli anni ’60 e ’70, quelle che avevano reso possibile stabilire il compromesso sociale." (..) "Credo che non ci sia altra scelta se non quella di passare anche noi all’offensiva, smettendo di illuderci che si possa tornare ad un passato che lo stadio attuale del capitalismo, non può più consentire. Quel modello lo dobbiamo cambiare, e cominciare a progettare un sistema diverso, una società postcapitalista che ci salvi dalla catastrofe: questo è il senso di quella “terribile” parola che è stata scritta nel Manifesto della Fillea: rivoluzione." (..) Non vi pare che del progetto di cambiare il mondo - che ha portato le generazioni passate a impegnarsi nella politica e anche a combattere nella Resistenza - oggi dovremmo almeno ricominciare a discuterne? Prendiamo dunque sul serio il Manifesto dell’Assemblea della Fillea."
Rigeneriamo la città, il lavoro, la democrazia: è il titolo del "Manifesto delle lavoratrici e dei lavoratori delle costruzioni" approvato il 15 giugno dall'Assemblea Generale della Fillea, che prevede un percorso di iniziative, approfondimenti, confronto sui temi della sostenibilità. Per approfondire QUI.
Per la Redazione - Serena Moriondo