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dipinto Nel 1961 la giornalista e madre Jane Jacobs pubblicava Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane e contribuiva a cambiare il modo d’interpretare il funzionamento della città contemporanea. Si trattava di una critica innovativa che utilizzava l’esperienza quotidiana - fatta di vita di quartiere e di spostamenti con mezzi pubblici o a piedi  - per  dimostrare i limiti dell’urbanistica del ’900.

Nell'organizzazione spaziale delle città, infatti, le disparità di genere tendono ad assumere le stesse caratteristiche che si riscontrano nella struttura sociale. Lo spazio urbano è stato modellato a misura del cosiddetto genere "dominante".

Michela Barzi, laureata in Architettura allo IUAV di Venezia, ha pubblicato sulla rivista inGenere, una rivista online di informazione, approfondimento, dibattito e proposte su questioni economiche e sociali, alcuni esempi di pianificazione territoriale ed urbanistica innovativa. Non è certo una novità - scrive Barzi - che il corpo femminile sia utilizzato per finalità commerciali, ma è possibile evitare questa interferenza con il paesaggio urbano, soprattutto se essa finisce per rafforzare i peggiori stereotipi di genere. Lo prova la decisione della città di Grenoble che, sin dal 2015, ha deciso di rinunciare ai proventi derivanti dalla cartellonistica pubblicitaria. In questo modo questa città è diventata la prima in Europa a vietare la pubblicità commerciale in strada sostituendo tutti i manifesti con alberi. A gruppi culturali e sociali è stata offerta pubblicità gratuita su bacheche del Comune.

Il concetto di genere, se utilizzato come un indicatore della condizione socio-culturale - piuttosto che biologica - delle persone, può efficacemente fungere anche da criterio di valutazione e d'indirizzo delle politiche urbane non solo sotto il profilo dell’uguaglianza e delle pari opportunità tra uomini e donne ma anche delle sue ricadute sulla società nel complesso. L’esperienza avviata a Vienna, ad esempio, a partire dagli anni ’90 ha visto più di sessanta progetti pilota nel campo della pianificazione urbana ispirati al gender mainstreaming, e può essere considerata una delle applicazioni più significative dell’idea di diversità urbana - da incentivare e preservare - anticipata da Jane Jacobs. Il fatto che persone di diverso genere, età, condizione economica, sociale e culturale abbiano modi diversi di usare lo spazio urbano orienta il modo in cui la città si trasforma.
Il primo intervento realizzato nella capitale austriaca è stato un complesso residenziale women-work-city, progettato da e per le donne dove all suo interno si trovano aree verdi per il gioco dei bambini, un asilo, una farmacia e uno studio medico, strutture che rispondono all’obiettivo di rendere più facile la vita delle donne divisa tra lavoro e funzioni di cura. Nel 1999 due parchi sono stati riconfigurati con l’intento di allargarne il numero e il tipo di frequentatori. Avendo precedentemente registrato che le ragazze erano meno propense ad utilizzare gli spazi verdi, poiché spesso scoraggiate dall’invadenza maschile, la nuova progettazione ha introdotto sentieri per migliorare l’accessibilità, aree per le diverse attività sportive e accorgimenti per la suddivisione degli ampi spazi aperti. Ora non è difficile constatare quanto numerosi siano i gruppi di persone, differenti per sesso ed età, che frequentano i parchi di Vienna.
Un’inchiesta relativa alle modalità e alle ragioni di spostamento in città ha poi fatto emergere che, mentre la maggioranza degli uomini utilizzava l’automobile o il trasporto pubblico due volte al giorno per il tragitto casa-lavoro, le donne avevano bisogno di una pluralità di spostamenti. Questo ha fatto sì che a Vienna si sia prestata maggiore attenzione alla realizzazione di marciapiedi più spaziosi e meglio illuminati e infrastrutture che facilitano l’accesso alle intersezioni del trasporto pubblico, dove anche chi spinge un passeggino o una sedia a rotelle possa raggiungere e utilizzare facilmente i mezzi in transito.
Così, dal 2013 Vienna si è datata di un manuale, il Gender Mainstreaming in Urban Planning and Urban Development, per gestire le trasformazioni urbane secondo un approccio che accorci le distanze tra le persone - nelle differenti fasi della vita e di ruolo sociale - e l’ambiente costruito.

Cambia il modello di vita, il modello delle relazioni, ma soprattutto cambia il rapporto tra vita e lavoro, perché cambia la qualità del lavoro, la sua organizzazione e la distribuzione del tempo di vita. E questo trasforma anche la quotidianità delle donne, il loro rapporto con il tempo, lo spazio e la socializzazione.
Questo tema è stato al centro della riflessione di Alisa Del Re, professoressa associata in Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova:

  • l’epoca fordista, quella delle grandi fabbriche, dei centri urbani degli affari, vedeva una distribuzione territoriale di genere molto definita: la quotidiana mobilità del lavoro separava meccanicamente i sessi e le funzioni sociali
  • nel post-fordismo la diluizione della grande fabbrica nel territorio, dapprima con l’esportazione di alcuni processi lavorativi all’esterno - se non addirittura, seguendo un processo di globalizzazione della produzione, al di fuori dei confini degli stati industrializzati -, in seguito con processi di meccanizzazione decentrata e informatizzazione del comando, ridisegna i processi lavorativi nel territorio urbano, la qualità del lavoro stesso (..) Il rapporto “centro-periferia” si modifica, spostamenti globali di popolazioni disegnano molte periferie urbane (..)  tanto da far dire a Enzo Piano: “Basta casette a perdita d’occhio. L’idea della città che cresce diluendosi si è rivelata insostenibile. Come porti i bambini a scuola, come organizzi il trasporto pubblico, come medichi la solitudine? Le città sono luoghi di incontro, di scambio, in cui si sta insieme, si costruisce la tolleranza, l’idea che le diversità non sono per forza un problema, sono una ricchezza. La città ora cresce per implosione, riempiendo i buchi neri”;
  • da tempo ormai il lavoro si spalma nelle case: molte grandi aziende ed enti pubblici, durante la pandemia, hanno sperimentato lo smart working. Il lavoro cambia ancora - sottolinea Alisa Del Re - e la novità è la quantità di persone che non lavorano in luoghi "socializzanti" e che spesso non si spostano dalla propria abitazione per lavorare. Le modalità di lavoro si individualizzano e si incapsulano nelle case;
  • le smart cities, di cui si parla parecchio - spiega Del Re - tendono a risolvere problemi con grande semplificazione attraverso le nuove tecnologie, ignorando la complessità dell’ecosistema urbano. La città, al contrario, è un sistema complesso, una realtà composita in cui vivono corpi con bisogni diversi. Per reagire positivamente a queste trasformazioni del lavoro, si vedono già tentativi di recupero di vita sociale per piccoli gruppi (tentativi che si stanno moltiplicando). Le sperimentazioni di co-housing, con progettualità comuni nel modo di vivere, con spazi di condivisione di tempi di vita e, nelle forme più recenti, anche con l’introduzione di spazi di co-working, mantenendo il lavoro individuale, ma in un luogo dove i corpi si vedono, si parlano. In questo contesto di grande mutamento epocale, il problema principale è senza dubbio la perdita della coesione sociale e la disgregazione della vita comunitaria. I servizi in comune, spesso la condivisione dei trasporti o i gruppi di acquisto solidale, il car-sharing, i mercatini di scambio dell’usato, le banche del tempo, gli orti comunali, le cooperative di badanti di condominio, le cliniche sociali, fanno uscire dal chiuso delle case sia parte del lavoro di cura che parte del lavoro salariato. Ciò modifica la struttura urbana, il modo di pensare la città, il quartiere. Madrid con la sindaca Manuela Carmena nel 2016; Barcellona, sempre con una donna alla guida, Ada Colau, hanno sperimentato negli ultimi anni questo approccio basato soprattutto su mutualismo, autorganizzazione, ecologia e solidarietà; Parigi con la sindaca Anne Hidalgo, ha avviato la sperimentazione della città dei 15 minuti con l'urbanista Carlos Moreno, punto di riferimento per l’urbanistica sostenibile.

E in Italia?

A seguire l'iniziativa europea di indirizzo verso un'Agenda urbana, del 2016, l’Università Bocconi e l’Università di Roma Tre, in collaborazione con il Centro nazionale di studi sulle città Urban@it e l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), hanno elaborato il progetto Linee guida per l’implementazione di un percorso di Agenda urbana e territoriale orientata agli SDGs dal titolo "L’Agenda urbana per lo sviluppo sostenibile".

Dopo diversi anni, salvo qualche eccezione locale, ciò che caratterizza oggi il nostro Paese è però ancora una persistente assenza di politiche coordinate per le città, che ha reso meno efficaci e dispersivi gli stessi programmi attivati nel tempo come, ad esempio, il Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell'Abitare (PINQuA).

Il dossier “Le Strategie territoriali nella Politica di coesione 2021-2027 - Agenda territoriale nazionale e Ruolo dei Comuni italiani” , dedicato alle Strategie territoriali cofinanziate dai Fondi SIE 2021-2027  offre un quadro completo della programmazione, degli strumenti attuativi e delle risorse finanziarie destinate dai Programmi Regionali (PR) al sostegno delle strategie di sviluppo sostenibile delle aree urbane e delle aree non urbane, regione per regione. A queste si aggiunge una visione d’insieme degli interventi PNRR ricadenti nelle aree target delle Strategie dei PR 21-27. Diventa indispensabile costruire alleanze che partano dal basso, dalle città, dall'associazionismo, dalle forze sociali presenti sul territorio per cogliere le opportunità che ci vengono offerte dall'Europa (Fondi strutturali, New European Bauhaus) intrecciandole con gli altri strumenti di azione per lo sviluppo come il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza e il Fondo complementare.

Nonostante che l'idea di riorganizzazione della vita sociale urbana con il cosiddetto Piano dei tempi e degli orari - proposta poi approdata nella legge 53 del 2000 - sia nata proprio in Italia, il senso iniziale del provvedimento è stato ampiamente disatteso. In tempi più recenti, alcune città come Milano, hanno adottato un approccio basato sull’urbanistica tattica, che prevede una riorganizzazione degli spazi attorno a determinati luoghi sensibili come le scuole dove, ad esempio, sono stati aperti giardini e parchi giochi, protetti dalle strade più trafficate.  Complessivamente però, in Italia, le esperienze di pianificazione e progettazione urbana di genere risultano estremamente limitate. È proprio lo sguardo come pratica consolidata, come praxis, che risulta carente, se non addirittura assente. La dimostrazione è proprio la mancanza di dati utili a comprendere le abitudini e le necessità dei cittadini, dati divisi anche per genere, oltre che per età, per reddito, per titolo di studio, per condizione lavorativa, ecc. In mancanza di ciò, ogni modello di città a cui tendere è solo un’ipotesi, non fondata, che ambisce a un’idea di città, magari anche auspicabile, ma non ha interesse a rispondere a ciò di cui effettivamente le persone hanno bisogno.

Non si tratta di introdurre solo maggiore uguaglianza e giustizia per donne e uomini, ragazze e ragazzi, persone anziane: il gender mainstreaming non è relativo solo alle cosiddette pari opportunità ma produce, allo stesso tempo, maggiore efficienza e qualità nei servizi; benessere e democrazia partecipata, coinvolgendo delle cittadine e dei cittadini nel processo progettuale.
L'Associazione Nuove Ri-Generazioni ha approfondito, negli anni, questi temi in diversi articoli, ve ne segnaliamo, per brevità, alcuni: "Molteplicit(t)à"; "OMS: Porre la salute al centro della pianificazione urbana e territoriale"; "SPONGE CITIES: un modello adattivo di città"; "Svuotare l'aria con un cucchiaio"; "Pianificare la complessità: resilienza, adattamento, accessibilità, inclusione" e "Progettare le città ... riguarda tutti", invitandovi ad esplorare le nostre pubblicazioni sul sito dell'Associazione.

Per concludere, tutto ciò vuol dire più spazio pubblico in termini di quantità ed accessibilità, un’idea di mobilità che consenta a tutti di spostarsi agevolmente e in sicurezza, una forte integrazione tra abitazioni, servizi e funzioni urbane, una particolare attenzione per i bisogni di chi, oltre al lavoro retribuito, impiega buona parte del proprio tempo per quello gratuito di cura.

Una città che utilizza le necessità delle donne come indicatore per le sue trasformazioni finisce per essere più attenta ai bisogni della società e di ognuno di noi. In sostanza, non si tratta semplicemente di realizzare una città per le donne, ma di accettare che non ci sia un modello unico di cittadino.

* Christine de Pizan, miniatura tratta dal "Libro della Regina", 1410-1414 circa, British Library, Londra 

Per la Redazione - Serena Moriondo